Per amore di Giorgio Armani: lo Storytelling vero lo deve fare il prodotto da solo.

Il libro di Giorgio Armani “Per amore” Rizzoli, 2022 (ripubblicato in una nuova edizione nel 2023) è una continua (ri)scoperta di un vero tesoro per gli aziendalisti che studiano i casi aziendali di successo, le case history di creazione di valore. Si tratta, in gran parte di aspetti già molto noti agli addetti ai lavori che conoscono la storia di Armani, ma il fatto di trovare a distanza di anni un modello di business e di identità aziendale ancora attuale e paradigmatico conferma l’universalità e la concretezza del concetto di patrimonio aziendale legato agli aspetti dell’esperienza, della competenza, della conoscenza e cultura e di tutti gli intagibles.

E poi ci sono alcune perle sorprendenti, forse dettate dalla visione distaccata e più obiettiva che l’approccio storico garantisce in ogni riflessione su ciò che resta, ciò che rimane, ciò che si tramanda in un marchio, in una identità e in una nazione, poiché Armani è un pezzo di Italia a buona ragione.

Un primo esempio è quando Armani scrive una lettera, contenuta nel libro, in pieno lockdown per il Covid nel 2020, nella quale conferma al sua visione sul declino della moda che è iniziato “quando il setttore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più e dimenticando che il lusso richiede tempo per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast.”

Tanta roba e in particolare una profonda critica contro il modello dei department store di cui sappiamo il declino anche per altre ragioni di banalizzazione: e suggerisce come la crisi possa essere un’opportunità per tornare al vero lusso che è attesa, che è preziosismo, che è stile anche nella presentazione.

Il secondo esempio ha a che fare con lo storytelling, davvero soprendente tenuto conto che il libro stesso è in qualche modo lo storytelling di Giorgio Armani. Che ruolo ha oggi lo storytelling?

Ancora una volta ci viene in soccorso lo stesso libro di Giorgio Armani: “ho vissuto una vita abbastanza lunga per affermare con certezza che ogni epoca ha le sue fissazioni. (…) Oggi con l’avvento dei social media non si fa altro che parlare di storytelling da ogni parte. (..) un oggetto da indossare è bene che parli ed emozioni da solo. (…) Se sono necessari racconti complicati cosa resta della forza e dell’identità del prodotto presentato? Tanto poi i nodi vengono tutti al pettine, sempre, e anche il pubblico più distratto percepisce se si ha davvero qualcosa da raccontare. Niente è più potente della verità“.

Ma qual è questa verità? La verità sono i bisogni inespressi del fruitore del nostro prodotto moda. Ecco la lezione di Giorgio Armani: “La moda per me è un mestiere, fatto di fantasia e concretezza, di intuito e rigore, di slancio e controllo. Non ha nulla di divino o sensazionale, ma ha un impatto incredibile sulla vita quotidiana. Nella mia visione di inventore pragmantico, non nasce dal canto delle muse, da uno stordimento poetico, da un raptus creativo. Fare moda vuol dire elaborare un’idea coerente di bello e condividerla con il tuo pubblico tenendo conto delle diverse realtà della vita contemporanea. Se si è davvero attenti, se si riescono a intercenttare anche i più piccoli segnali, che sono lì ad attenderti, in ogn istante, i bisogni del pubblico li si avverte ancora prima che si manifestino, e si gioca d’anticipo, identificando i cambiamenti della società”.

Vedete? Ancora una volta: l’imprenditore è colui che intuisce e anticipa il cambiamento e in qualche modo ne è il vettore e lo fa. In questo testo, L’impresa calzaturiera – 1998, di cui sono autore degli scritti, ne parlo a proposito delle percezioni, dei bisogni e delle motivazioni del consumatore che lo portano a identificarsi con un marchio, una storia, un’azienda.

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