Avete mai sentito il detto “articolo quinto: chi ha più soldi ha vinto?” Detto così sembra che ci debba essere solo una azienda, quella più forte finanziariamente, quella più grande, in ogni settore. Quindi le altre, sarebbero destinate a scomparire. E invece non è così.
Il nanismo delle Piccole e Medie Imprese italiane, nel 90% aziende familiari, e in generale delle aziende italiane ossessiona da tempo economisti, grandi advisor di aziende e imprenditori.
Una piccola azienda che chiude spesso lo fa proprio per uno dei motivi che vengono addotti come motivazione della debolezza di queste aziende: la presenza di un “uomo chiave” non sostituibile, la concentrazione della clientela, le economie “interstiziali” non sfruttabili a lungo termine, le rendite di posizione a rischio, le risorse limitate per avere accesso a fattori critici di successo come l’internazionalizzazione.
Molti articoli sul valore delle imprese riportano, come in questo caso http://www.jacobscapital.net/does-size-really-matter—valuation-multiples.html come i moltiplicatori dell’EBITDA usati per le piccole e medie imprese scontano una serie di penalizzazioni rispetto alle grandi imprese, dovute proprio a questi e altri fattori di rischio.
Ed ecco qui uno studio meno recente, ma altrettanto interessante https://keynesblog.com/2014/06/03/piccole-imprese-una-scomoda-verita/ che dimostra come i dati siano drasticamente peggiori secondo vari parametri.
In sintesi:
- più grande è l’impresa più produttivi sono i lavoratori
- Più è grande un’impresa, maggiori sono i salari
- Più grande è un’impresa, meno lavora il suo dipendente
- Le grandi imprese investono di più per addetto
I dati sono dati, incontrovertibili e non certo opinabili.
Qual è la conclusione di tutte queste premesse? Che piccolo è “brutto, sporco e cattivo”?
In realtà tutte le aziende, anche quelle grandi, chiudono o falliscono per gli stessi motivi, con l’aggravante di non aver avuto nessuno, tra tutti quelle menti che gonfiano il pay-roll e il numero degli addetti, che si è posto la domanda: “qual è il piano?” “Che strategia abbiamo”? “Chi siamo noi e cosa ci distingue dalla concorrenza, dagli altri, soprattutto agli occhi dei nostri clienti”?
Inoltre, molti pareri sono decisamente interessati, cioè espressi da chi è in difficoltà a gestire relazioni di mentoring con gli imprenditori e a costruire per i titolari delle imprese strumenti diversi da modelli di analisi, da “tabelle” o dall’intelligenza artificiale, magari tutti figli della letteratura americana, tutta focalizzata sul BtoC mentre le aziende italiane sono in stragrande maggioranza BtoB, vendono beni strumentali, servizi industriali. Mai sentito parlare di marketing relazionale dell’imprenditore?
Il fattore famiglia dietro all’impresa mette in difficoltà molti colleghi, poiché si tratta di gestire variabili umane, valoriali e filosofiche dell’imprenditore che vanno al di là, anzi che vengono percepite come esterne all’impresa. Eppure proprio una famiglia è la grande risorsa dell’impresa italiana quando la visione tipica di lungo periodo sul valore dell’azienda impone le domande sulla strategia e il senso del business.
E’ la stessa famiglia, quando non si muove correttamente e sulla base di criteri manageriali e “saggi” ad essere un vincolo, certo, in alcuni casi.
L’impresa, comunque, anche se non familiare è fatta di uomini: e sono gli uomini, soci, collaboratori, professionisti e manager, una vera e propria famiglia, a valutare le situazioni e a compiere le scelte. E queste comprendono anche la dimensione ottimale per competere che dovrà sposarsi anche con la giusta strategia di mercato, senza dogmi, luoghi comuni e soluzioni preconfezionate.
Quindi a parte il leader del settore, che per il momento ha vinto, ci saranno grandi, medie e persino piccole imprese virtuose e competitive, con EBITDA di sicura attrattività. Ognuno con la propria strategia: e che vinca il migliore, anzi quello che ha la dimensione giusta!