Oltre gli steccati tra Manager Cooperativi e Manager di Impresa

Un interessante testo di Alessandro Messina ci ricorda che qualunque sia la compagine societaria e il settore profit, non profit o low profit di appartenenza, le organizzazioni sono fatte soprattutto di persone.

A pagina 92 di questo lavoro, ci si imbatte in un breve elenco che qualifica i comportamenti mirati alle relazioni di valore di un manager cooperativo:

  • Parlare con franchezza da chi è in alto nella gerarchia superando le ipocrisie dei meccanismi di potere
  • Ascoltare con attenzione anche evidenziando quando non ci sono le condizioni per farlo superando la retorica della porta aperta
  • Esprimere tra pari con i superiori e con i collaboratori le proprie esigenze senza remore, con onestà intellettuale per dare a tutti il modo di esprimere le proprie opinioni
  • Tenere in considerazione le esigenze di tutti i collaboratori e degli interlocutori
  • Coinvolgere, motivare, incoraggiare e responsabilizzare le persone

Verrebbe da pensare che si tratti di un manuale di gestione di un’impresa privata mirata al profitto, ma in fondo esiste questa differenza nella gestione del capitale umano?

Il contributo di Messina parte da una disamina storica, e già questo rende molto interessante e utile la lettura: ricordare la storia e l’evoluzione di ciò che è stata non solo la cooperazione, ma tutta l’economia industriale italiana aiuta a comprendere questo tipo di organizzazione che ha cercato di trovare il proprio spazio tra ideologie contrapposte, e le istanze che ha portato avanti.

Nella storia più recente del dopoguerra dopo l’affermazione come terzo settore stabilmente presente in modo rilevante tra le aziende pubbliche e quelle private fino agli anni ’80, si affronta anche la fase degli scandali, delle crisi finanziarie, degli arresti e dei clamorosi episodi tra anni ’90 e anni 2000.

Ma l’autocritica intellettualmente trasparente e profonda non si limita ad additare errori adebitabili a comportamenti paradossalmente più spregiudicati e autocratici del settore cooperativo rispetto a certi corsari capitani dell’industria e della finanza privata: essa va al profondo della questione, al modello di impresa, alle relazioni e al capitale umano, alla natura e alla ragion d’essere dell’impresa cooperativa, al solidarismo, alla mutualità.

Si tratta di pagine scritte, lo ripeto qui, ma va detto, con competenza e onestà intellettuale rispetto alla natura umana utilitaristica ed egoista, negando la quale si commette un errore grave nelle organizzazioni sociali, poiché è proprio partendo dalla quale che bisogna mirare alla crescita culturale di valori solidaristici dei membri dell’organizzazione stessa, che sia una cooperativa o un’azienda a capitale privato.

Perciò si tocca il punto interessante: anche l’azienda cooperativa è, appunto una azienda, e ha bisogno di un modello di impresa che funzioni e di manager che lo gestiscano in modo efficiente e portino avanti le strategie sul mercato e questi non sono molto diversi dal manager dell’azienda a capitale privato.

Ma è sempre qui che inmodo interessante si può ribaltare la questione: quale valore possono dare alle aziende a capitale privato la storia, il modello e l’esperienza, le competenze maturate nel mondo cooperativo? Se è vero che una sana dose di managerialità nel mondo cooperativo, di razionalità, di accountability non possono e non devono stravolgere l’obiettivo e la natura stessa di cooperatività e utilità sociale del modello cooperativo, quali valenze solidaristiche e cooperative devono e possono essere considerati nell’intero panorama dell’intrapresa in Italia?

I contributi sono molti e interessanti e invito alla lettura degli stessi nei due ultimi capitoli, 4 e 5 del libro di Messina. Il fatto stesso che sempre più imprese adottano la forma della B-Corp e della Società Benefit, allargando i benefici dei risultati all’impresa ai collaboratori, ai fornitori e clienti, all’ambiente e alla società in cui pulsa l’attività dell’impresa, a livello locale e nazionale, dimostra molti di questi temi.

E ancora: il manager che si chiude in una stanza a “fare tabelle” anche in aziende a capitale privato verrà inevitabilmente debellato sempre più dai modelli di intelligenza artificiale, ma già ora deve uscire dalla propria stanza e costruire relazioni, modelli di collaborazione, di condivisione degli obiettivi sociali, della strategia, della stessa ragion d’essere dell’azienda, la sua identità, il suo marchio identificativo sul mercato e nella società.

E’ il manager che lavora per i collaboratori aziendali e non viceversa: è questo vale per tutte le aziende. Deve essere mentore e coach dei propri collaboratori stretti e trasmettere loro l’obiettivo di fare lo stesso con tutti i collaboratori aziendali

Il manager deve avere una formazione culturale elevata ed eclettica, deve essere un buon politico, intessere relazioni anche fuori dall’azienda, portare avanti istanze con i vari stakeholter aziendali, con la classe dirigente politica e amministrativa locale, con il settore e in generale nella società, con il mondo della cultura, dell’informazione, della ricerca.

Sempre più aziende per cercare nuovi addetti si occupano e si preoccupano di trovare abitazioni e di darle ai nuovi collaboratori, spesso immigrati. Sempre più aziende si occupano del rapporto tra etica e business. L’azienda non è (più) un’isola in mezzo al mare: è un essere vivente e pulsante e necessita una classe dirigente fondamentalmente e profondamente capace di umanità.

gianluigi@gianluigimelesi.com