La nicchia del tiro a segno

Nel periodo della pandemia molti alberghi si sono trovati di fronte al dilemma di resistere e tenere aperta la struttura – cogliendo l’opportunità di attrarre clienti che si servono di altre strutture concorrenti – oppure chiudere attendendo tempi nuovi, evitando di bruciare risorse ulteriori e magari utilizzando gli ammortizzatori sociali.

In particolare mi è capitato di vedere in una struttura ricettiva alcune decine di camere occupate da sportivi, famigliari e altro seguito tecnico di uno sport definito minore: il tiro a segno. In quell’hotel ciò ha rappresentato per diversi giorni oltre la metà della saturazione delle camere, e sicuramente in futuro diversi di questi ospiti torneranno per fare turismo in zona visto che ora hanno conosciuto la struttura.

Ma chi avrebbe basato il “piano di azione commerciale” sul mondo del tiro a segno? Tutti avrebbero pensato agli sport più diffusi, ai gruppi di interesse (come sempre noti, nazionali, internazionali) e svago sportivo che interessano una massa rilevante.

Invece diversamente da quanto viene erroneamente ritenuto, spesso non esiste UN piano commerciale fatto di UN gruppo omogeneo e rilevante di consumatori o clienti, bensì TANTI piccoli piani commerciali rivolti a altrettanto numerosi target che sommati diventano una massa critica, che solo in un secondo momento può azionare il passaparola virale.

E più è ristretto il gruppo di clienti, più lo definisco attraverso un numero sempre maggiore di criteri e maggiore è la probabilità definirne un profilo “nitido” un identikit in cui il cliente si identifica.

Va da sé che bisogna lavorare molto di più per intercettare e gestire la complessità e unicità dei bisogni dei gruppi singoli di clienti, molto diversi tra loro. E molto più numerosi! E’ difficile? Rischioso? E’ il compito di una vera impresa e di veri manager definire e mantenere una vera strategia: definire e scegliere cioè la propria parte di mercato.

E chi vuole un confronto professionale con un consulente sa dove trovarmi!

La fine dei Navigator?

I navigator sono da qualche mese nell’occhio del ciclone.

Il loro contratto di assunzione scade a breve e queste figure non hanno svolto il loro ruolo di trovare lavoro ai percepienti il reddito di cittadinanza: si parla di non rinnovare 2700 contratti.

Abbandonati persino dai grillini, in loro difesa, tra le motivazioni che vengono addotte dalla CGIL (in presidio a Roma nei giorni scorsi)  c’è quella – che definire stupefacente è poco e pubblicata da tutti i giornali https://www.repubblica.it/economia/2021/02/09/news/la_protesta_dei_navigator_che_rischiano_di_restare_senza_lavoro_serve_una_proroga_a_fine_2021_-286725159/?ref=RHTP-BH-I286519397-P1-S5-T1 – che “Le banche dati a disposizione dei navigator non si parlano, gli elenchi delle imprese erano vecchi e non aggiornati“.

Gli elenchi imprese? Non esistono “elenchi imprese“: tutti noi studiosi, ricercatori, professionisti e consulenti aziendalisti negli uffici marketing delle imprese usiamo il Registro delle Imprese che non è un elenco usa e getta, ma un database in linea costantemente aggiornato tenuto dalle Camere di Commercio, proprietà pubblica, dove le aziende si registrano e depositano gli atti e i bilanci.

Come è possibile che lo Stato venda a noi aziendalisti e imprenditori l’accesso a dati perfettamente in linea, dai quali si estraggono visure e certificati a norma di legge, elenchi aziende con parametri di ricerca i più sofisticati per fare la mappatura del mercato BtoB, e non li usi per i suoi navigator?

Sono sicuro poi che le società del settore che dalla riforma Treu, quelle che da 20 anni intermediano privatamente il 98% del mercato del lavoro (il 2% è intermediato tramite il collocamento) hanno accesso in modo permanente ai dati sulle società italiane, monitorandone i dipendenti,  gli sviluppi, la domanda, la crescita, studiando i profili ricercati sulle pagine “lavora con noi” di queste società di cui conoscono gli HR e i selezionatori. E avranno sicuramente sviluppato modelli evoluti di Business Intelligence per sviluppare le capacità di valutare i bisogni, attuali e futuri, in termini di competenze, capacità, ruoli e mansioni nelle aziende.

Vi sono figure, i data analyst, i risk manager, i cyber security manager, analisti di mercato, ma anche figure tecniche specializzate, nella digitalizzazione, automazione, meccanici, elettricisti, gestori di processi di logistica, project leader che vengono proposte alle aziende, prima ancora che esse avvertano il reale bisogno di digitalizzazione o evoluzione delle competenze organizzative, magari erogando anche servizi di reengineering dei processi organizzativi aziendali oltre che la selezione delle figure ricercate cosa che i puri “intermediatori” come i navigator non sono in grado di offrire alle aziende.

Persino all’interno delle stesse Risorse Umane (HR) compaiono figure di estrazione umanistica il filosofo aziendale, che si occupano di clima aziendale, apprendimento, motivazione, crescita del capitale umano, che non rispondono a classica impostazione domanda/offerta ma che rappresentano e facilitano il cambiamento organizzativo.

Forse sarebbe il caso di far fare a chi conosce il mercato la riqualificazione professionale e l’intermediazione con incentivi per politiche attive del lavoro: si tratta solo di far gestire sempre con gli stessi strumenti un “market place” della domanda e dell’offerta di lavoro digitalizzando il tutto e di usare a questo scopo anche i molti fondi della formazione finanziata inutilizzati.

Lo Stato così risparmia sussidi per costruire doppioni inutili (e sconnessi) dei centri per l’impiego, il vecchio collocamento, anzi: percepisce maggiori versamenti contributivi e fiscali, e chi conosce il mercato è incentivato a fare di più per la piena occupazione: è così facile che lo capirebbe anche un politico italiano.