Piccoli Brand: c’è spazio per la sfida, ma la fedeltà non va mai data per scontata.

Nel suo recente studio globale sui brand, Deloitte mette in evidenza una tendenza che già da qualche anno mostra la fiducia consistente sui marchi storici ed emergenti: la fiducia sui marchi storici c’è e si mantiene, dunque, ma non può mai essere data per scontata.

La cosa interessante di questa ricerca a cura di Andrea Laurenza è la potenzialità anche di marchi minori, piccoli brand, emergenti di affermarsi sul mercato in tempi relativamente brevi, soprattutto tra le generazioni (per i prodotti di consumo e durevoli) più giovani.

Recentemente si è anche assistito all’affermazione di marchi che erano stati abbandonati in passato, ripresi e rilanciati da nuovi progetti, segno che tutti gli investimenti in passato hanno lasciato l’eco di una riconoscibilità nei consumatori: gli esempi di Moncler e Le Vans sono conosciuti, ma ci sono anche Pino Silvestre e Vidal ad opera di Mavive Spa.

Progettare, realizzare, avviare e portare un brand ad affermarsi sul mercato richiede grandi capacità di project management, risorse e competenze molto variegate, spesso difficili da far “stare insieme” e legate a percezioni e assetti valoriali psicografici. E’ un lavoro molto paziente di costruzione fatto di molteplici aspetti spesso complessi, articolati, peculiari e di natura diversissima, che devono avere una coerenza di insieme spesso difficile da realizzare e che non dà certezze di risultati.

Basta un piccolo errore, una incoerenza anche banale, un aspetto non curato a sufficienza, una reazione dei marchi attuali non prevista per chiudere le barriere all’ingresso per far crollare tutta la “piattaforma di lancio” e di sostegno del nuovo marchio e anche di un marchio storico e il marchio scivola inesorabilmente.

Esistono esempi storici di marchi andati in declino per aspetti tecnologici o di cambiamento dello stile di vita: Blockbuster, Abercrombie, Blackberry Nokia, Kodak e altri. Ma altri marchi sono scivolati verso l’oblio a causa di cattive politiche di posizionamento: l’esempio di Alviero Martini – Prima Classe è paradigmatico e ha fatto scuola come nascita e tramonto.

Il marchio quindi racchiude in sé in modo ideale un po’ tutto l’insieme di valore del prodotto servizio, e deve essere mantenuto di valore attraverso investimenti, ma anche attività di manutenzione, di approfondimento, di conservazione del valore, di sua evoluzione all’evolversi del mercato, della società e delle percezioni.

Investire su un marchio, creare e sviluppare un brand ha storicamente ragioni davvero imbattibili, spesso legate alla facilità nella comunicazione del valore del brand stesso:

  • Riconoscibilità e protezione dell’identità e dell’unicità del brand e valore di immagine anche con i mercati dei capitali e in generale degli investitori
  • Possibilità di sfruttare economicamente l’asset rappresentato dal marchio attraverso licenze, diritti di sfruttamento, royalties e altre valorizzazioni l’immagine e cessioni
  • Per settori legati al BtoB e in generale alle commesse e non al prodotto la possibilità di dare valore unitario e a un unicum a un sistema di valori, vantaggi competitivi, avviamento e capitale immateriale
  • Possibilità di comunicazione e azione di mercato veicolata, di creare un panel di clienti fidelizzati e referenti e che a loro volta promuovono il marchio, della rete di distribuzione e del prodotto stesso.
  • Vantaggi fiscali, incentivi e contributi pubblici, e altri vantaggi

Dunque, pensare a un marchio e alla sua affermazione sul mercato – incluse le piattaforme digitali – come la strategia anche di aziende medio-piccole per misurare la capacità di capitalizzare, tesaurizzare ogni singola azione e politica di prodotto, distribuzione, comunicazione ottenendo un avviamento, un goodwill riconosciuto e riconoscibile.

Chi voglia discutere dell’organizzazione di questo importante piano di azione mi contatti: gianluigi@gianluigimelesi.com

I falsi miti dell’Intelligenza Artificiale: un libro per riflettere

Non mancano nel panorama editoriale diversi testi tecnici (e articoli scientifici) molto esaustivi e al contempo divulgativi che chiariscono bene dal punto di vista contenutistico il concetto di Intelligenza Artificiale, come è nato storicamente il termine, come si è sviluppata la storia del cosiddetto “apprendimento della macchina”, le tipologie, gli approcci.

La domanda che però emerge sempre in azienda (e spesso, ironia della sorte guarda caso all’interno delle case editrici nell’analizzare un testo o addirittura nel generarlo per la pubblicazione) è quanto sia vero che la macchina pensi.

Gli imprenditori, che in Italia spesso non hanno scolarizzazione elevata, o comunque specifica nel campo della tecnologia legata all’AI, curiosamente pongono sempre la stessa domanda che così posso riassumere: “ma è un programma solo un po’ più flessibile, sofisticato e potente per i dati che riesce a masticare o è proprio intelligenza che pensa?”

Ecco, leggendo questo libro, mi è tornata a mente proprio questa domanda, in particolare al concetto di “pensare” e al significato che ognuno di noi dà al termine. Accenno solo qui di aver sentito l’autore alla radio dire egli stesso quanto tutti, credo, abbiamo capito e banalmente che se proviamo a chiedere allo strumento qualcosa che conosciamo bene, ci accorgeremo che magari lo strumento risponde in base a ciò che è stato inserito in esso, coscientemente, o incoscientemente, consapevolmente o dolosamente.

Non voglio svelare nulla dei 10 miti ben riassunti e “puntuti” cioè ideonei a lanciare – come ogni testo deve fare – la riflessione circa questa tecnologia apparentemente così “disruptive” dirompente e devastante in certi suoi aspetti. Questo libro è appunto un contributo critico, non è un manuale, ma parlando di intelligenza, cito la scheda che ben riassume la ragion d’essere di questo prezioso contributo, cioè per citare Manzoni, l’intelligenza della sua narrazione: “tra rigore e leggerezza, il libro decostruisce semplificazioni, suggerisce nuove prospettive, stimola domande. Senza offrire facili risposte, invita a riflettere sul modo in cui raccontiamo l’IA – e su quanto quelle narrazioni influenzino le nostre scelte, le nostre paure, il nostro futuro.”

Chi lavora e vive la vita aziendale avrà riconosciuto l’approccio critico, introspettivo e consapevole che dobbiamo da sempre avere con la persona umana, con il capitale umano aziendale e l’intelligenza degli esseri umani: e perché, dico io, a maggior ragione non dovremmo averlo con quella artificiale?

Buona lettura.

gianluigi@gianluigimelesi.com

Osella contro Mondelez: come gestire un socio esterno alla famiglia?

La famiglia contro la multinazionale. C’eravamo tanto amati, ma ora i soci fondatori di Fattorie Osella, che detengono 49% circa delle quote escono dal CDA dell’azienda in dissenso con il socio di maggioranza, la multinazionale Mondelez.

Si sa che la famiglia decise di cedere la maggioranza, mantenendo la propria presenza fondamentale per la gestione, per “garantire lo sviluppo industriale di Fattorie Osella” e questo è molto chiaro, sul lato distributivo del prodotto e sulle tecnologie e “porte” che Mondelez consente di aprire.

Altrettanto chiare sono le motivazioni di questo strappo laddove si parla della necessità di mantenere il legame con il territorio, l’eredità morale e la qualità dei formaggi. Chi ha orecchie per intendere, dunque ha inteso benissimo e se così non fosse ci sono le parole di Rossella Osella: “Sono convinta che le aziende alimentari abbiano il dovere di restituire parte di ciò che hanno ricevuto e ricevono dalla terra”.

La presenza di un socio esterno alla famiglia o ai fondatori, che sia una multinazionale (molti sono i casi nel passato, anche nello stesso comparto alimentare) o un fondo di investimento, richiede dunque la costruzione di un delicato meccanismo di governance sulle strategie. E occorre mettere in conto che il matrimonio di interesse può dopo qualche tempo essere in crisi e arrivare a una separazione, consensuale o meno.

Nonostante queste criticità e questi rischi quella di far entrare un esterno mantenendo una presenza nella gestione e nella proprietà maggioritaria o minoritaria dei fondatori resta una delle opzioni strategicamente più importanti e di successo per diversi aspetti tra cui possiamo indicare i principali:

  • Gestire passaggi generazionali e il patrimonio familiare, anche immobiliare
  • Avere una valutazione di azienda che sia oggettiva e indichi dove è il valore
  • Avere accesso a canali di distribuzione e mercati altrimenti non accessibili
  • Fare investimenti fondamentali per mantenere la competitività e accedere al credito e ai mercati
  • Raggiungere le dimensioni minime per competere, anche in relazione al capitale umano e ai mercati esteri
  • Sviluppare la presenza e le relazioni imprenditoriali con professionisti e manager con esperienza nel mercato altamente qualificati interni e esterni
  • Far crescere le nuove generazioni con “insegnanti” di eccellenza diversi dalla propria famiglia
  • Ridurre il rischio e avere piani A-B-C per l’azienda e per i soci in continuità in anticipo

Nonostante il mercato dei capitali abbia l’arma dei soldi da investire, ricordiamo sempre che la cosa che vale di più e che non si può comprare è un piano industriale e un imprenditore che lo crea e lo porta avanti. E se ci fosse tra gli investitori qualcuno che ci permette di realizzarlo prima e con maggiore successo?

Per chi volesse approfondire: gianluigi@gianluigimelesi.com