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Negli ultimi giorni hanno fatto notizia gli accordi aziendali con premio di risultato legato anche alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio.
Prima Luxottica https://www.ilsole24ore.com/art/luxottica-sperimenta-4-giorni-settimana-lavoro-parita-salario-AFyS7QrB che ha ridotto per 20 settimane annue le giornate lavorative settimanali da 5 a 4, ha dato un premio, ma al contempo, per chi ha letto nei dettagli, ha ridotto comunque parte dei permessi contrattuali, segno che l’azienda ha un costo sommerso che non riesce a gestire con l’organizzazione del lavoro, quindi tanto valeva contrattualizzarlo rendendolo certo.
E questo comunicare i parametri della qualità e produttività del lavoro non è rivolto solo internamente ai collaboratori, che in questo modo vedono una gestione più accorta, ma anche all’esterno dell’azienda per creare un’immagine attrattiva per le risorse umane da assumere per coprire il fabbisogno di competenze.
A questo proposito uno studio recente condotto da Cedec, Centro Europeo di Evoluzione economica individua proprio nell”Employer Branding, cioè l’attrattività e notorietà di un modello organizzativo per i potenziali collaboratori di talento e con le competenze giuste, uno dei fattori critici di successo aziendale La gestione delle risorse umane: le nuove sfide ed opportunità | CEDEC – CEDEC (cedec-group.com)
Insomma una organizzazione per crescere e svilupparsi al punto di diventare fattore critico di successo strategico per l’imprenditore deve porsi sul mercato (del lavoro) con criteri simili a quelli dei brand di successo. Il premio di risultato è un modo per orientare i comportamenti organizzativi dei collaboratori non solo per il premio in sé ma anche per la chiarezza sulle aspettative e soddisfazione dell’imprenditore sul lavoro dei collaboratori.
E voi? Conoscete della vostra azienda le inefficienze dovute a una tipologia di attività che mal si sposa con la complessità dei contratti tradizionali su 40 ore con permessi e ROL che maturano? Avete strumenti di misurazione del livello di produttività attuale e lo scostamento dovuto alle inefficienze, premessa fondamentale per avere un salario di risultato defiscalizzato con accordo di secondo livello?
Volete ridiscutere il modello di organizzazione del lavoro della vostra azienda con chi lo fa da decenni, cioè i Consulenti di Direzione aziendale? Contattatemi: gianluigi@gianluigimelesi.com
Da Armani, ad Arnault molti si stanno organizzando per tempo per dare continuità alla gestione aziendale, ma i casi Amadori, Angelini, Vitaloni (San Carlo) e le stesse saghe per l’eredità Agnelli ancora in corso ci dicono che non sempre va tutto bene.
Scegliere per tempo l’assetto e la governance, con rapporti chiari tra manager e famigliari eredi delle quote è una strategia necessaria, come del resto ha fatto Del Vecchio con Luxottica, ma la storia ci insegna che non sempre va tutto liscio.
In questa intervista Giuseppe Caprotti esprime a distanza di tempo un giudizio sul padre che fa riferimento alla gelosia del padre come motivo dell’allontanamento nei confronti del figlio. https://www.lastampa.it/economia/2023/10/18/news/giuseppe_caprotti_mio_padre_era_geloso_di_me_cosi_mi_caccio_da_esselunga-13791216/. E’ un caso molto comune nelle dinastie quello di leader che “distrugge i suoi successori” (per la verità anche tra i manager) per affermare comunque di essere il migliore e insostituibile nel gestire una “storia aziendale”, a costo paradossalmentedi distruggere la stessa storia per riaffermarlo.
Con la lettura di questo bel testo di story telling aziendale e, aggiungo, italiana, nel libro di Giuseppe Caprotti (ben scritto, ma non avevo dubbi visto che si è occupato a livello accademico di storia contemporanea), tra le altre cose, emergono anche spunti interessanti da molti punti di vista: per esempio il fatto che l’introduzione del negozio on-line e delle vendite non -food volute da Giuseppe Caprotti forse avrebbero consentito a Esselunga di realizzare l’e-commerce 10 anni prima di Amazon, se Giuseppe non fosse stato allontanato dal padre.
Senza arrivare alla storia della tragica della successione in Gucci https://www.divinamilano.it/il-caso-gucci/ è dunque un aspetto molto importante gestire i passaggi generazionali e le scelte di fondo prima che si manifestino litigi tra i soci.
Un patto familiare è sicuramente il giusto strumento giuridico con l’apporto di consulenti esperti, ma c’è qualcosa che non deve mai mancare e cioè la capacità di un fondatore di creare la successione costruendo in azienda una leadership e una coesione che gli sopravviva basata anche sulla cultura manageriale e sul vantaggio competitivo.
Ed è qui che attraverso strumenti anche di formazione e gestione condivisi costruiti da consulenti aziendalisti di organizzazione e di impresa si realizzano gli obiettivi di far sopravvivere il vero valore dell’azienda: la sua identità condivisa. Un po’ come ha fatto Oscar Farinetti con i figli affiancando loro un manager esperto e di spicco a giudizio indiscusso di tutti come Andrea Guerra.
Se è vero dunque che gl iimprenditori veri come i talenti nascono così, un po’ come i funghi migliori, laddove c’è, sì, un terreno fertile, ma come e quando non lo si può prevedere, è pur vero che i continuatori di una storia di eccellenza si possono e si devono coltivare e far crescere nel tempo molto prima del tramonto dei fondatori.
Il libro di Giorgio Armani “Per amore” Rizzoli, 2022 (ripubblicato in una nuova edizione nel 2023) è una continua (ri)scoperta di un vero tesoro per gli aziendalisti che studiano i casi aziendali di successo, le case history di creazione di valore. Si tratta, in gran parte di aspetti già molto noti agli addetti ai lavori che conoscono la storia di Armani, ma il fatto di trovare a distanza di anni un modello di business e di identità aziendale ancora attuale e paradigmatico conferma l’universalità e la concretezza del concetto di patrimonio aziendale legato agli aspetti dell’esperienza, della competenza, della conoscenza e cultura e di tutti gli intagibles.
E poi ci sono alcune perle sorprendenti, forse dettate dalla visione distaccata e più obiettiva che l’approccio storico garantisce in ogni riflessione su ciò che resta, ciò che rimane, ciò che si tramanda in un marchio, in una identità e in una nazione, poiché Armani è un pezzo di Italia a buona ragione.
Un primo esempio è quando Armani scrive una lettera, contenuta nel libro, in pieno lockdown per il Covid nel 2020, nella quale conferma al sua visione sul declino della modache è iniziato “quando il setttore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più e dimenticando che il lusso richiede tempo per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast.”
Tanta roba e in particolare una profonda critica contro il modello dei department store di cui sappiamo il declino anche per altre ragioni di banalizzazione: e suggerisce come la crisi possa essere un’opportunità per tornare al vero lusso che è attesa, che è preziosismo, che è stile anche nella presentazione.
Il secondo esempio ha a che fare con lo storytelling, davvero soprendente tenuto conto che il libro stesso è in qualche modo lo storytelling di Giorgio Armani. Che ruolo ha oggi lo storytelling?
Ancora una volta ci viene in soccorso lo stesso libro di Giorgio Armani: “ho vissuto una vita abbastanza lunga per affermare con certezza che ogni epoca ha le sue fissazioni. (…) Oggi con l’avvento dei social media non si fa altro che parlare di storytelling da ogni parte. (..) un oggetto da indossare è bene che parli ed emozioni da solo. (…) Se sono necessari racconti complicati cosa resta della forza e dell’identità del prodotto presentato? Tanto poi i nodi vengono tutti al pettine, sempre, e anche il pubblico più distratto percepisce se si ha davvero qualcosa da raccontare. Niente è più potente della verità“.
Ma qual è questa verità? La verità sono i bisogni inespressi del fruitore del nostro prodotto moda. Ecco la lezione di Giorgio Armani: “La moda per me è un mestiere, fatto di fantasia e concretezza, di intuito e rigore, di slancio e controllo. Non ha nulla di divino o sensazionale, ma ha un impatto incredibile sulla vita quotidiana. Nella mia visione di inventore pragmantico, non nasce dal canto delle muse, da uno stordimento poetico, da un raptus creativo. Fare moda vuol dire elaborare un’idea coerente di bello e condividerla con il tuo pubblico tenendo conto delle diverse realtà della vita contemporanea. Se si è davvero attenti, se si riescono a intercenttare anche i più piccoli segnali, che sono lì ad attenderti, in ogn istante, i bisogni del pubblico li si avverte ancora prima che si manifestino, e si gioca d’anticipo, identificando i cambiamenti della società”.
Vedete? Ancora una volta: l’imprenditore è colui che intuisce e anticipa il cambiamento e in qualche modo ne è il vettore e lo fa. In questo testo, L’impresa calzaturiera – 1998, di cui sono autore degli scritti, ne parlo a proposito delle percezioni, dei bisogni e delle motivazioni del consumatore che lo portano a identificarsi con un marchio, una storia, un’azienda.
Da tempo si stanno diffondendo sempre più le soluzioni di analisi data driven che orientano le strategie aziendali confermandole o aggiornandole, ma negli ultimi mesi con l’intelligenza artificiale la tendenza è a “sposare” il dato al punto di far fare alla Intelligenza Artificiale (AI) anche il pricing ( e in generale il marketing) in base all’analisi puntuale del momento.
Questo vale naturalmente per le vendite on.line in e.commerce e su piattaforma e in generale dove il prezzo ogni minuto è fatto dalla domanda e dall’offerta puntuale, ma il fenomeno tendenzialmente destinato a coinvolgere anche i tradizionali listini prezzi. Tutti quanti siamo infatti consci ormai come le speculazioni sulle materie prime siano figlie di modelli di analisi di dati e di comportamenti orientati dall’intelligenza artificiale che hanno creato il rally dei prezzi nel 2022, per esempio.
Un esempio semplice, poiché riguarda tutto noi come consumatori, è quello del settore dell’Ho.Re.Ca. in particolare delllospitalità alberghiera e hotellerie (e B&B) in cui i Property Management System (PMS), software che gestiscono tutti gli aspetti delle business operations di un hotel vengono usati come base dati per un confronto a consuntivo su come si sono sviluppati i prezzi in un dato periodo e in una data zona.
I dati di confronto sono disponibili come noto a grandi operatori on-line come Trivago, Hotel, Trip, Booking, e via dicendo e sono sempre più integrati, disponibili e acquisibili anche tramite apposite banche dati.
In questo primo caso, (un esempio è https://lybra.tech/it/ di Zucchetti) attraverso un’analisi di un dato periodo comparativa dei dati (anonimi) tra le strutture della zona e quella nostra, possiamo comprendere come abbiamo gestito il trade-off tra saturazione delle stanze e margine complessivo realizzato e gli errori che possiamo aver commesso nel fare ipotesi di princing e magari perdendo potenziali clienti.
La variabile “umana” di interpretazione dei dati e di scelta delle politiche è sempre salva poiché il rischio maggiore è quello di far perdere la fiducia a clienti storici che si conoscono tra loro che si ritrovano a pagare prezzi differenti nel medesimo periodo e comunque diversi da quelli dell’anno precedente, il che è davvero un rischio.
Un altro fattore molto importante è il fatto che l’orario è fondamentale nell’evoluzione del prezzo di giornata con il passare delle ore, sia in senso di offerte “last minute” per saturare le stanze sia al contrario per prenotazioni dell’ultimo momento causate dalla saturazione di altri alberghi. La soluzione potrebbe essere quella di avere un canale tradizionale per i clienti fidelizzati e lasciare all’intelligenza artificiale calcolare il prezzo speculativo per i clienti occasionali, quindi sempre in modo coerente.
Non è questo il caso invece di altri strumenti di intelligenza artificiale i quali (per esempio https://www.hbenchmark.com/) automaticamnete e in tempo reale calcolano e comunicano ai clienti online i prezzi sulla base dei dati di confronto (Benchmark) del momento, (ed è questo il caso in cui in una zona con un evento particolarmente affollato, troviamo il nostro hotel da 100 Euro in offerta a 5 o 6 volte tanto).
Anche sul canale analogico, cioè quotazioni fatte con intervento umano e comunque su richiesta senza rendere il prezzo pubblico, queste soluzioni aggressive data driven delle strategie di princing sono evidenti, e in particolare quando la quotazione della stanza cambia giorno per giorno su tutto il periodo di pernottamento, per cui se sono 3 giorni ci troviamo tre prezzi diversi per ogni giorno.
E’ evidente che queste ultime soluzioni sono in teoria utili a grandi strutture alberghiere di grandi città, con un mercato locale molto denso e dimensionato e grado di fedeltà dei clienti quasi nullo, mentre sono deleterie per hotel in zone turistiche, lontano dalle grandi città, con un numero limitato di concorrenti in zona, ma elevato come costo opportunità e quindi in concorrenza con altre zone turistiche o addirittura altre spese per lo svago.
L’algoritmo quindi costituisce comunque un rischio ed è sempre stato così, poiché negli anni ’80 l’avvento dei computer fu parte delle cause dei crolli delle borse del 1986 e 1989 a causa proprio della bolla speculativa provocata da acquisti e vendite “automatici” guidati da algoritmi impostati e non gestisti dall’uomo.
Inoltre, non è questo il tema dell’articolo presente, ma si rimanda agli studi sui rischi dei Big Data, della analisi predictive in cui l’algoritmo “impara” progressivamente dai dati, della natura del dato e di altri aspetti che rendono rischioso affidarsi a dati e numeri e farsi guidare da essii senza una interpretazione
Il settore degli Hotel possiamo dire che sia un po’ pioniere di un futuro data driven per le strategie sul mercato in particolare sui prezzi opportunistici? Sicuramente la cosa più importante in una strategia è porsi la domanda: chi sono io? Se la risposta non è “sono il leader di mercato”, allora c’è da riflettere molto sulla strategia di pricing o marketing data driven e scegliere di fare come il piccolo e medio albergatore: genero i dati a consuntivo, aggrego i dati del periodo delle strutture concorrenti e analizzo se e come per la parte della clientela occasionale ho massimizzato il margine (non la saturazione) e decido la tattica da usare contro i grandi concorrenti leader di mercato.
Sono le cosiddette strategie interstiziali: se volete parlarne il consulente è qui a disposizione!
Il CFO ha sempre torto. Ovvero: perché un leader razionale può essere fatale in un’azienda.
Ve lo dice uno che l’ha fatto per oltre 10 anni: in azienda il CFO ha sempre torto, anche quando ha ragione.
Non parlo qui del ruolo in sé del CFO, che riassumo nella descrizione dell’obiettivo della propria mansione e cioè occuparsi di: strategia finanziaria, pianificazione economica, budget e analisi dei processi, analisi del rischio, contabilità e amministrazione, tesoreria, gestione fiscale, controllo di gestione e report sull’andamento economico finanziario, rispetto dei principi contabili e gestione, selezione, formazione delle risorse umane all’interno della funzione AFC, Amministrazione, Finanza e Controllo.
Tutti questi compiti, ruoli e obiettivi della funzione AFC non sono in discussione, ma comunque ha torto.
Come è possibile? E’ possibile poiché il CFO è, di fatto, oggi, il data manager, cioè la funzione di staff, quella consulenziale di chi presidia le grandezze attraverso le quali rappresentiamo per mezzo di strumenti conoscitivi (CRM, ERP, MRP, etc) l’andamento della nostra azienda; e qualsiasi dato non ha alcun significato in sé, se non visto alla luce del sistema prodotto e servizio, della strategia organizzativa e di mercato, della catena del valore del prodotto e dell’azienda dell’azienda e da tutta una serie di aspetti che hanno a che fare con la leadership relazionale.
Cosa fa il CFO? Oggi, abbiamo detto, è lui il data manager, chi deve analizzare la natura dei numeri, la lettura, i misuratori di efficienza e di efficacia, le relazioni tra le diverse grandezze, il grado di raggiungimento del risultato, il rischio, il mercato, il cliente, la tecnologia.
E spesso lo fa nascosto dietro alla propria scrivania, in modo impietoso, asettico e razionale.
E’ corretto? Sì: è corretto che lo faccia, abbiamo bisogno di un uomo (o una donna) razionale, cinico, che ci tiene con i piedi per terra, che ci restituisce una realtà misurata da confrontare con la realtà immaginata e prevista. Tutto questo è per l’azienda, ciò che per l’essere umano è mangiare, bere e dormire. Necessario? Certo! Sufficiente? No di certo, anzi, spesso fuorviante e fatale: le aziende non falliscono perché non hanno più liquidità. Non hanno più liquidità perché non hanno più una strategia vincente sul mercato e con il cliente, da cui si sono allontanate in modo irreversibile.
E’, infatti molto pericoloso avere una leadership solo razionale, già a partire proprio dai compiti meramente del CFO all’interno della propria funzione: chi conosce concetti di opportunismo organizzativo, distorsione della percezione del budget, zona confort, e altri comportamenti organizzativi legati alle strategie personali di carriera, sa bene di cosa parlo. E non siamo ancora usciti dall’ufficio del CFO. Se parliamo della gestione complessiva aziendale, della leadership relazionale (e non solo razionale), della costruzione dei team, della cultura organizzativa, dell’identità aziendale, del lavoro di gruppo, ecco cosa NON deve fare il CFO.
Cosa NON deve fare il CFO:
Non mettete il CFO a gestire le relazioni con i clienti: anche se pagano in ritardo, anche se si tratta di definire condizioni generali di fornitura, garanzie o aspetti fiscali legati all’attività tipica dell’AFC, il CFO non deve avere alcun contatto e relazione commerciale. Se ne occupi il commerciale prima e poi l’ufficio legale interno ed esterno per il recupero del credito.
Non mettete il CFO a gestire le risorse umane: il CFO riduce le relazioni organizzative a numeri, tende a misurare ore, giorni, chilometri, Euro, numero di collaboratori, come se fossero tutti uguali gli uni agli altri e non in relazione alla catena del valore del prodotto-servizio, al know-how aziendale e al vantaggio competitivo con il cliente.
Non mettete il CFO a misurare il valore di funzioni quali Marketing, Pubbliche Relazioni, Ricerca e Sviluppo, Formazione delle Risorse Umane: un’ora di costo in più investendo sulle competenze e sull’autostima dei collaboratori, può valere milioni, mille ore di ricerca non portano a nulla, un’ora può portare al vantaggio competitivo di anni, e questo nei numeri non c’è.
Non mettete il CFO a misurare le relazioni causa-effetto perché spesso il CFO ragiona con il futuro, nel fare previsioni, proiettando il passato, il che è decisamente sbagliato nella gestione dei rischi e del capitale umano. Il CFO spesso confonde la causa con l’effetto (le aziende falliscono perché non hanno liquidità), l’obiettivo con i mezzi per raggiungerlo, il misuratore, l’unità di misura, con il grado di raggiungimento del risultato, le persone con i numeri.
Non mettete il CFO a misurare le cause degli scostamenti della produttività delle persone poiché non è in grado di comprendere concetti come emotività, alienazione, giochi di ruolo, strategie personali di carriera, opportunismo e tende ad eliminarle ignorandole, e a banalizzarle.
Non mettete il CFO afare il leader, poiché il CFO non è un leader: non ha capacità empatiche, non riesce a mettersi nei panni degli altri, non ha capacità di motivare gli altri partendo dalle loro motivazioni, ma solo dalle proprie.
Non mettete il CFO a valutare il ruolodell’esperienza in una strategia aziendale poiché il CFO è spesso convinto che la formazione universitaria sia tutto e il CFO spesso è “intercambiabile” da un settore all’altro e questo porta ad assorbire poco le esperienze in vari settori, contesti, mercati.
Non mettete il CFO a gestire il cambiamento: per formazione, mentalità, aspirazione e postura il CFO è rigido, tende a ripetere all’infinito i modelli di analisi e a a razionalizzare tutto: è poco incline all’adattamento, all’incertezza, agli ostacoli, ai comportamenti irrazionali e a tutto ciò che non è misurabile, conoscibile, razionalizzabile.
Non mettete il CFO a fare il mentore: il mentor è un compagno di viaggio, dalla lunga e variegata esperienza interdisciplinare e professionale, dalle elevate capacità psicologiche e di relazione umana che sa ascoltare, affiancare, formare, accompagnare, insegnare e imparare, parlare e crescere, senza alcuna pretesa di imporsi o dirsi meglio di colui che affianca.
Naturalmente questo articolo provocatorio: la stragrande maggioranza dei CFO grazie a una maturazione sul campo dispone di esperienza, spessore umano, interdisciplinarietà, competenze trasversali.
Come diceva l’Ingegner Francesco Gambino, uno dei fondatori della Consulenza di Direzione in Italia negli anni ’80 e mio mentore: “Il CFO inizia ad avere una ragione d’essere nell’Alta Direzione quando, per la prima volta nella sua vita lavorativa, ha capito di avere torto, nonostante i suoi numeri gli diano ragione.”
PS: lo stesso ragionamento possiamo farlo con il Direttore della Produzione, Chief Production Office, con il Direttore Commerciale, o con altre figure apicali: la forza dell’azienda è proprio quella di avere un team vincente in cui “la contaminazione” di competenze tra le varie funzioni fa crescere la capacità del team di Direzione di gestire le complessità e anticipare le evoluzioni del mercato.
l’ERP – Enterprise Resource Planning è un sistema di software diversi disegnati per la pianificazione, il controllo, il governo e la gestione dei processi aziendali al fine di pianificare e assicurare decisioni per la migliore efficienza ed efficacia dei processi stessi.
Lo sviluppo più interessante degli ERP è l’integrazione dei vari software gestionali (progettazione, magazzino e gestione materiali e approvvigionamento,produzione, contabilità e finanza, business planning, CRM e commerciale, HR risorse umane) al fine di garantire un governo unico, coerente, e pianificato nei risultati aziendali.
In questi ultimi anni sono entrate prepotentemente l’Intelligenza Artificiale (AI) e la Business Intelligence (BI)https://cedec-group.com/it/cedec-partner/business-intelligence che consentono sviluppi di potenzialità per raggiungere miglioramenti dell’efficienza e del grado di raggiungimento del risultato ottimale aziendale.
Ma se fanno tutto ERP, AI e BI allora cosa fa il manager?
I manager fanno quello che da sempre avrebbero dovuto o dovrebbero fare: non ricerca di dati, tabelle, analisi scostamenti, previsioni, report, ma selezione, formazione, gestione e motivazione delle risorse umane sugli strumenti, inclusi gli ERP. E ppi di conseguenza la creazione di progetti per il miglioramento leggendo i dati, gestione comitati di gestione della complessità, per l’innovazione di processo e di prodotto, di ricerca e sviluppo, per l’inserimento di nuove risorse umane e nuove competenze, così difficili da trovare, da mantenere in azienda.
I manager fanno… il cambiamento delle risorse umane e l’adattamento dell’organizzazione, perché la variabile umana è quella che la tecnologia non può e non deve gestire: forse sarà la volta buona che in molte aziende finalmente ci sarà la comunicazione tra Direzione e collaboratori, forse sarà la volta buona che si comprenderà che i manager devono avere eccellenti competenze relazionali oltre a quelle razionali.
Se la tecnologia della BI e della AI ci fornisce i dati per il controllo, e i dati “dentro ci sono tutti” ecco l’eccellenza delle qualità umane e psicologiche dei manager con i collaboratori perché il cambiamento e l’adattamento continuo è il futuro della competizione.
Negli ultimi 20 anni, dal 2003 al 2023 la pressione fiscale è passata dal 38,8% al 43,7% . La pressione fiscale è la percentuale sul PIL che lo Stato incamera come sommatoria delle imposte dirette sul reddito, sul patrimonio, indirette sui consumi. Il dato del 2023-2024 è previsto in leggero calo al 42.5% ma se il PIL non cresce (denomimatore) l’effetto rischia di essere ancora quello di un dato che non scende, anzi che torna al 43%.
A questa percentuale di pressione fiscale, quindi fa riscontro un ammontare di entrate fiscali di bilancio in Euro che nel grafico seguente ammontano a circa 750 miliardi nel 2021 cioè più o meno lo stesso importo del 2003.
Quindi in buona sintesi lo Stato ha aumentato del 15% la parte di ricchezza prodotta sottratta ai consumi e agli investimenti per ottenere lo stesso risultato di entrate. Ne è valsa la pena? No. Anche perché, il PIL è determinato anche dalla parte lasciata al contribuente per i consumi e all’azienda per gli investimenti, e non è una variabile indipendente dalle politiche fiscali.
Una analisi per tipo di imposta in particolare rivolta a imposte sui redditi separate dalle imposte indirette e su quelle sul patrimonio confermano questa invarianza nonostante si sia alzata la pressione fiscale.
Inoltre, l’errore di considerare le imposte sul patrimonio più certe è già stato commesso durante il governo Monti, con l’IMU sulla prima casa, poiché le imposte sul patrimonio si pagano con il reddito, quindi di fatto sono imposte sul reddito e quindi regressive come l’aumento della pressione fiscale sopra illustrato, cioè che non porta aumenti di entrata in bilancio sia in complessivo che nelle singole imposte.
Anzi a ben vedere i dati, le imposte indirette (IVA) e i contributi hanno tenuto su le entrate fiscali ed è noto che non dipendono dal reddito, quindi sono meno redistributive.
Un altro dato che conferma i dubbi, è il dato storico ISTAT sul sommerso, https://www.istat.it/it/archivio/sommerso passato dal 2003 al 2022 (ultimo dato disponibile) dal 18,3% al 10,5%: dunque “pagare tutti per pagare di meno” non è stata la politica, visto che nello stesso periodo la pressione fiscale è salita dal 38% al 42-43%.
Al di là di effetti annunci, tagli a scadenza del cuneo fiscale, flat tax, è il totale delle entrate del bilancio pubblico che derivano da tasse applicate a cittadini e imprese sulla ricchezza che questi producono è il vero misuratore di quanto la politica economica – in particolare fiscale – di questo governo sarà o meno differente da quelli che lo hanno preceduto.
L’inflazione ha colpito nel 2022 le aziende con una “sorpresina di Natale” che ha sorpreso chi non ha memoria lunga (o una certa età) e non ricorda come il fondo TFR va rivalutato di una percentuale pari a 1,5 punti percentuali fissi più il 75% del tasso di inflazione annuale, cioè oltre il 9% di rivalutazione. Per molte aziende con dipendenti dalla lunga anzianità di servizio è stato un duro colpo al bilancio.
Nel 2023 il tasso di inflazione ha iniziato la sua lenta discesa e si prevede nella seconda parte dell’anno si prevede un deciso raffreddamento, complice anche la recessione tecnica provocata dalle politiche monetarie di tassi di interesse alti ad opera della FED e della Banca Centrale Europea.
Ma tornerà tutto come prima o il mondo, dopo una pandemia, una guerra, un cambiamento di scenario geopolitico quale quello degli ultimi anni non sarà più lo stesso?
Compito degli imprenditori e dei top manager è gestire il rischio e l’incertezza e in questo momento il rischio è molto alto. Stabilire listini, fare preventivi, ipotizzare politiche di prezzi ai clienti incorpora oggi un rischio di nuove tensioni sui prezzi delle materie prime, dell’energia, dei trasporti e della logistica. E più è lungo il ciclo temporale della commessa e maggiore è il rischio!
Utilizzare politiche che “vincolino” (per non dire strozzino) i fornitori, non è una grande mossa, poiché la supply chain deve essere parte attiva nella creazione e divisione del valore. Molte aziende si ricordano le “prepotenze” subite sui mancati adeguamenti dei prezzi stabiliti all’inizio del 2022 cioè prima dell’esplosione dei prezzi dell’Energia e delle Materie Prime e non sono certo disposte a farsi legare mani e piedi.
Anche i clienti, con un rallentamento dell’economia, potrebbero non accettare più così facilmente ribaltamenti di inflazione sui prezzi da loro pagati.
Nel frattempo il costo del lavoro potrebbe aumentare poiché un non ritorno all’inflazione strisciante (inferiore al 2%) prima o poi influenzerà la curva di offerta del lavoro.
Sicuramente con prezzi e mercati instabili e variazioni anche repentine, la necessità di gestire l’azienda con ERP e MPR e in generale strumenti gestionali di preventivazione, consuntivazione e controllo della commessa o della produzione è ancora più importante e critico. La capacità di reazione e riposizionamento deve essere al massimo. Ecco che questo nuovo scenario, che potrebbe portare a una inflazione incipiente che si mantiene a lungo tra il 3 e il 5% a seconda dei settori, favorisce le medie e mediopiccole aziende da sempre molto flessibili e capaci di interpretare il mercato.
Nessuno sa come andrà a finire, se si tornerà agli anni dell’inflazione strisciante tra il 2000 e il 2021, quel che è certo è che con una inflazione che dovesse mantenersi tra il 3 e il 5% a lungo termine le logiche di analisi della marginalità e del rischio, del costo opportunità, e in generale le scelte imprenditoriali cambieranno molto.
Costo del lavoro più alto, tassi di interesse più alti, variazioni molto marcate sui mercati energetici e delle materie prime, iperinflazioni e recessioni, svalutazioni delle valute: un mondo con una inflazione non strisciante è qualcosa che non viviamo da almeno due decenni: attrezziamoci.
“Un figlio diventa un erede, un vero erede quando concepisce l’eredità come un compito, non come un’acquisizione, ma il compito di continuare a fare esistere, a fare vivere quello che ha ereditato”.
Così lo psicologo e autore di diversi libri Massimo Recalcati spiega al festival della cultura di Matera pochi anni fa il complesso rapporto inter generazionale tra genitore e figlio.
E conclude il suo intervento con queste parole di Freud: se vuoi davvero ereditare quello che i tuoi padri ti hanno lasciato devi saperlo riconquistare.
La difficoltà del passaggio generazionale in azienda è proprio riassunta da quest’ultima frase di Freud, con l’ulteriore criticità che in azienda la figura del padre, del genitore, della generazione Senior da un lato e il capo, l’AD, il Presidente, il Direttore Generale dall’altro si sovrappongono.
Ciò significa una difficoltà della generazione junior di comprendere a fondo, con strumenti e contributi oggettivi, terzi, professionali, cosa, quando e perché provenga dal genitore e cosa dal boss che sono nella stessa persona.
In Italia, questo passaggio avviene sempre molto in là, nel tempo. Per usare nuovamente le parole di Recalcati, tratte dal suo bellissimo Il Complesso di Telemaco, “le nuove generazioni appaiono sperdute tanto quanto i loro genitori. Questi non vogliono smettere di essere giovani, mentre i loro figli annaspano in un tempo senza orizzonte.”
Ecco quindi il ruolo critico del Temporary/Project Manager o Consulente di Direzione aziendale sul progetto del passaggio generazionale. Una figura professionale esterna all’azienda, che lavora sul singolo progetto di fiducia, con lunga esperienza come manager aziendale e che collabora con i tributaristi, consulenti legali, avvocati di impresa, manager, ma che ha una specializzazione e una formazione psicologica e motivazionale, di mentor, di figura disinteressata e scelta comunemente che aiuta le giovani generazioni a “conquistare” l’eredità.
Sono quando la generazione junior conquista, o meglio riconquista con orgoglio un’azienda per i propri meriti nell’aver gestito un processo di transizione e formazione con successo, essa sarà davvero la nuova generazione senior al timone dell’azienda.
L‘inflazione del 2022 e del corrente 2023 ha inciso sul potere di acquisto dei salari e degli stipendi abbassando le condizioni di benessere dei collaboratori.
Chi ha un tasso variabile sul mutuo, ha subito anche un incremento della rata mensile causa l’aumento dei tassi applicati.
Collaboratori economicamente insoddisfatti, anche a parità o leggera crescita di stipendio costituiscono risorse potenzialmente poco coinvolte, motivate e premiate.
Nonostante qualche timido intervento dei governi negli ultimi anni, il costo del lavoro in Italia soffre di un carico fiscale, o cuneo, che, al crescere del livello retributivo, rende sempre più difficile riconoscere ai collaboratori riconoscimenti economici adeguati alle loro aspettative, ai loro progetti di vita e al giusto premio per un lavoro di qualità ed eccellenza.
La soluzione a questa prospettiva è immediata e praticabile ed è costituita dal salario di produttività ovvero dalla contrattazione di secondo livello legata ai risultati che beneficia anche di un vantaggio fiscale che rende il premio netto più alto.
Il premio di produttività si compone di tre parametri principali:
Premio per la presenza che combatte l’assenteismo
Premio per l’efficienza e la produttività
Premio per la qualità del lavoro, ovvero riduzione della non conformità o difettosità
L’attuale formulazione della legge che consente una tassazione ridotta su questi premi anche attraverso il welfare aziendale, però, richiede però di individuare obiettivi misurabili di miglioramento rispetto all’attuale livello di efficienza aziendale, di presenza e di mancanza di difettosità
Obiettivo immediato quindi deve essere quello di costruire uno strumento trasparente e condiviso con i collaboratori e che stabilisca la base 100 dell’anno di partenza, determinando a raggiungimento di un grado di miglioramento (quindi minore assenteismo, maggiore produttività, minore difettosità) il corrispettivo del premio stesso.
Ciò non significa solo dare di più in termini economici alle risorse umane coinvolte: significa anche che le stesse finalmente sono consapevoli di come viene misurata la qualità del loro lavoro, nell’ottica della responsabilizzazione, della trasparenza e del coinvolgimento.
I collaboratori che sono formati e coinvolti e consapevoli di come il risultato del proprio lavoro contribuisca al risultato aziendale, saranno legati all’azienda, soddisfatti e risorse per la crescita.
La presenza di un Project Manager o Manager consulente che costruisca con i professionisti e consulenti del lavoro dell’azienda gli strumenti garantisce l’esperienza, la professionalità e la terzietà di una figura altamente qualificata.