Solo pochi anni fa il “nanismo” delle Piccole e Medie Imprese era l’argomento di conversazione tra imprenditori, consulenti, professionisti e investitori del mondo professionale e manageriale delle aziende. Partner dei primi gruppi mondiali di consulenza si sono dedicati spesso a scrivere libri contro questa incapacità di crescere (in ogni senso) del tessuto produttivo italiano.
Già da qualche anno, grandi società di consulenza, studiosi, investitori, advisor e fondi di investimenti hanno letteralmente abbassato l’asticella entrando di prepotenza nel mondo dell’impresa familiare, spesso in Italia padronale, e di dimensioni più limitate.
Che nelle PMI ci sia spesso un valore e una capacità di crearlo più elevato, forse dovuto alla necessità di competere con concorrenti formidabili più dimensionati, questo è nei numeri, nei fatti e nella realtà: se il leader di mercato fa pressioni di prezzi al cliente sfruttando economie di scala su volumi più elevati e risorse dimensionate ottimamente per l’organizzazione dei processi, il concorrente di media o piccola taglia è obbligato a differenziare, innovare, studiare il valore per il cliente e personalizzare prodotto e servizio.
Ma in questo momento storico c’è forse qualcosa di più e di meglio da comprendere. Le aziende familiari, spesso a tasso “padronale” elevato, con presenza limitata di manager esterni alla famiglia e con struttura più appiattita, con “invasione” a gamba tesa dei soci nei processi top down, e altri difetti tipici sempre additati, vivono un momento di favore del vento per il quale i difetti si trasformano spesso in pregi.
- Catena del comando corta, struttura piatta e poca delega: svantaggio che diventa vantaggio perché l’imprenditore conosce meglio e a fondo la sua azienda, i suoi processi, la sua struttura e i suoi uomini. E il cambiamento è così molto veloce.
- Azienda sottocapitalizzata e incapace di generare liquidità e marginalità apparente: svantaggio che diventa vantaggio se si considera che non sono mai stati davvero valutati gli asset tangibili e intangibili dell’azienda, mentre nella grande azienda si ricorre spesso a queste politiche di bilancio per fare risultato. C’è patrimonio nascosto, c’è marginalità nascosta (spesso sotto forma di SNC/SAS) per non farsi scovare.
- Assenza o presenza limitata di manager in azienda esclusi i soci: assenza totale di comportamenti “opportunistici” in cui l’obiettivo di carriera del manager e del suo “gruppo di amici” (chiamiamoli così) divergono in modo distonico da quelli aziendali. Se non c’è delega (difetto) e controllo formalizzato in strumenti (difetto) e misurazione (difetto) e incentivazione sui risultati (difetto) è anche vero che non ci sono distorsioni sulla strategia e comportamenti tattici, aree di comfort tipici delle istituzioni totali. Le PMI non sono istituzioni totali!
- Strategia gestita dalla famiglia (difetto se si tende a favorire la famiglia rispetto all’impresa di famiglia considerandola un giocattolo e un bene proprio) che però garantisce quella visione di lungo termine da garantire alle generazioni successive, tanto importante in momento come quello attuale di crisi da pandemia. Pensiamo solo all’obbligo di rivedere tutta l’azienda con il passaggio generazionale che impone riflessioni assenti nelle aziende più grandi spesso “sedute” sul proprio successo.
Questi sono solo alcuni degli esempi che rendono particolarmente attraenti per le operazioni di M&A le aziende di taglio ridotto con grande capacità di crescita potenziale, che sono sopravvissute “nonostante”, che hanno poi redditività media spesso più alta di quella dellle grandi e grandissime imprese, flessibilità e innovatività.
Gli investitori, insomma, ragionano di margini ottenuti nonostante i tanti difetti dell’azienda padronale, e immaginano, non a torto che con una organizzazione e manager capaci quei margini potrebbero essere persino maggiori.
Da colpevoli di ogni ritardo e di ogni bassa produttività le PMI oggi giocano un ruolo critico importante per il futuro dell’economia? Lo scopriremo solo vivendo.