Le PMI additate per il nanismo cronico, oggi sono il futuro?

Solo pochi anni fa il “nanismo” delle Piccole e Medie Imprese era l’argomento di conversazione tra imprenditori, consulenti, professionisti e investitori del mondo professionale e manageriale delle aziende. Partner dei primi gruppi mondiali di consulenza si sono dedicati spesso a scrivere libri contro questa incapacità di crescere (in ogni senso) del tessuto produttivo italiano.

Già da qualche anno, grandi società di consulenza, studiosi, investitori, advisor e fondi di investimenti hanno letteralmente abbassato l’asticella entrando di prepotenza nel mondo dell’impresa familiare, spesso in Italia padronale, e di dimensioni più limitate.

Che nelle PMI ci sia spesso un valore e una capacità di crearlo più elevato, forse dovuto alla necessità di competere con concorrenti formidabili più dimensionati, questo è nei numeri, nei fatti e nella realtà: se il leader di mercato fa pressioni di prezzi al cliente sfruttando economie di scala su volumi più elevati e risorse dimensionate ottimamente per l’organizzazione dei processi, il concorrente di media o piccola taglia è obbligato a differenziare, innovare, studiare il valore per il cliente e personalizzare prodotto e servizio.

Ma in questo momento storico c’è forse qualcosa di più e di meglio da comprendere. Le aziende familiari, spesso a tasso “padronale” elevato, con presenza limitata di manager esterni alla famiglia e con struttura più appiattita, con “invasione” a gamba tesa dei soci nei processi top down, e altri difetti tipici sempre additati, vivono un momento di favore del vento per il quale i difetti si trasformano spesso in pregi.

  1. Catena del comando corta, struttura piatta e poca delega: svantaggio che diventa vantaggio perché l’imprenditore conosce meglio e a fondo la sua azienda, i suoi processi, la sua struttura e i suoi uomini. E il cambiamento è così molto veloce.
  2. Azienda sottocapitalizzata e incapace di generare liquidità e marginalità apparente: svantaggio che diventa vantaggio se si considera che non sono mai stati davvero valutati gli asset tangibili e intangibili dell’azienda, mentre nella grande azienda si ricorre spesso a queste politiche di bilancio per fare risultato. C’è patrimonio nascosto, c’è marginalità nascosta (spesso sotto forma di SNC/SAS) per non farsi scovare.
  3. Assenza o presenza limitata di manager in azienda esclusi i soci: assenza totale di comportamenti “opportunistici” in cui l’obiettivo di carriera del manager e del suo “gruppo di amici” (chiamiamoli così) divergono in modo distonico da quelli aziendali. Se non c’è delega (difetto) e controllo formalizzato in strumenti (difetto) e misurazione (difetto) e incentivazione sui risultati (difetto) è anche vero che non ci sono distorsioni sulla strategia e comportamenti tattici, aree di comfort tipici delle istituzioni totali. Le PMI non sono istituzioni totali!
  4. Strategia gestita dalla famiglia (difetto se si tende a favorire la famiglia rispetto all’impresa di famiglia considerandola un giocattolo e un bene proprio) che però garantisce quella visione di lungo termine da garantire alle generazioni successive, tanto importante in momento come quello attuale di crisi da pandemia. Pensiamo solo all’obbligo di rivedere tutta l’azienda con il passaggio generazionale che impone riflessioni assenti nelle aziende più grandi spesso “sedute” sul proprio successo.

Questi sono solo alcuni degli esempi che rendono particolarmente attraenti per le operazioni di M&A le aziende di taglio ridotto con grande capacità di crescita potenziale, che sono sopravvissute “nonostante”, che hanno poi redditività media spesso più alta di quella dellle grandi e grandissime imprese, flessibilità e innovatività.

Gli investitori, insomma, ragionano di margini ottenuti nonostante i tanti difetti dell’azienda padronale, e immaginano, non a torto che con una organizzazione e manager capaci quei margini potrebbero essere persino maggiori.

Da colpevoli di ogni ritardo e di ogni bassa produttività le PMI oggi giocano un ruolo critico importante per il futuro dell’economia? Lo scopriremo solo vivendo.

Linkedin per aziende: sei consigli (per iniziare!)

Girando per aziende in tutta Italia, e qualche volta in Europa, mi ritrovo spesso a definire piani con le agenzie di comunicazione marketing delle aziende clienti.

Linkedin è parte dei social aziendali, importante soprattuto quando le aziende sono BtoB, ed è paradossale che in un Paese dove questo tipo di aziende sono la maggioranza schiacciante, non venga utilizzato a pieno e siano così pochi i profili veramente evoluti.

La responsabilità è spesso delle stesse agenzie che si sono formate nella letteratura BtoC americana e non sono preparate a comprendere il processo di relazione coi clienti, di definizione della rete professionale e di costruzione dei potenziali contatti per aziende che hanno come clienti altre aziende, quindi con processo di acquisto articolato, da gestire con i referenti aziendali che a loro volta hanno strategie di comunicazione e carriera.

Ci sono 13 milioni di profili Linkedin in Italia, ma oltre la metà sono letteralemente “vuoti”, privi di contatti, oppure non alimentati, non aggiornati o semplicemente di persone che rivestono ruoli non decisori in azienda. La maggior parte dei profili individuali non sono collegati al profilo aziendale Linkedin, non sono profili professionali e quindi non hanno le funzioni critiche e non vengono utilizzati a pieno, ci sono doppi profili delle stesse figure, e profili evidentemente creati dalla stessa Linkedin per verificare il traffico.

Molto spesso le aziende hanno profili di più esponenti di punta utilizzati in luogo del profilo Linkedin aziendale, all’interno dei quali però la descrizione dell’attività e le parole chiave sono diversi tra loro e diversi da ciò che il cliente trova nel sito, persino i loghi sono diversi con buona pace delle coerenze di marketing e dell’indicizzazione.

Ecco quindi sei consigli per iniziare a usare Linkedin la cui utilità può essere un fattore di successo solo dopo aver costruito la propria rete strategica:

  1. Linkedin è un social professionale, ma pur sempre un social individuale: esiste quindi un doppio obiettivo strategico in un profilo di un “buyer” di un cliente potenziale: quello individuale di carriera e quello relativo al proprio ruolo in azienda
  2. La parte del profilo linkedin relativa alle referenze, interessi personali, siti e persone seguite che è posizionata in fondo, e che tutti snobbano, è in realtà la più importante. Nel marketing BtoB il processo di acquisto prevede di soddisfare le motivazioni della persona e dell’azienda dove lavora. Dietro a un buyer, a un referente, a un segnalatore, c’è sempre una persona con le sue passioni di lavoro e no.
  3. Ogni potenziale buyer, segnalatore o referente ha una sua formazione, inclinazione alle relazioni o alla razionalità del ruolo: studiare bene il tipo di personalità è più importante di chiedere amicizia, poiché in diversi casi, dopo aver studiato il profilo, il percorso del contatto è tradizionale, telefonico, o altro, ma non linkedin.
  4. Non ha senso fare spamming in Linkedin, è un errore grave perché non c’è una seconda occasione e il copia e incolla viene subito percepito. Obiettivo è creare la rete, preparare una rete social per contenuti interessanti per gli interlocutori che dobbiamo ancora studiare proprio in base a ciò che c’è nei loro profili. Non ha senso forzare: occorre invece fotografare lo stato dell’arte del marketplace Linkedin.
  5. I contenuti devono avere a che fare con le strategie del cliente, non con ciò che noi vogliamo comunicare del nostro prodotto. Il marketing vincente è aiutare il cliente a vincere la sua partita, la sua strategia di carriera, fornendo ad esso attraverso il nostro prodotto e servizio, un fattore critico di successo per il suo mercato, non per il nostro.
  6. Ricordatevi che Linkedin c’è per fare comunicazione, ma ancor prima per fare carriera e cercare lavoro: un buyer è interessato a un contatto se questo gli fornisce anche conoscenze per entrare in contatto con datori di lavoro, con HR, con occasioni professionali concrete. Va da sé che un venditore comune non è interessante più di tanto per un Direttore Acquisti o un CEO o un imprenditore di una PMI.

Tutto questo è solo l’inizio: se disponete di un CRM completo connesso con il registro imprese Linkedin professionale aziendale sarà e dovrà essere integrato e produrre “campi evoluti” “mappe strategiche” (al di là dei dati psicografici e anagrafici) capaci di suggerire all’interno della rete strategica fatta di influenzatori del processo di acquisto, la segmentazione vincente. E’ la parte più divertente, creativa, stimolante in tutti i sensi del mio lavoro con gli uffici marketing delle aziende.

Ricordiamocelo sempre: la strategia è la parte del mercato che l’azienda vuole coprire, difendere e preservare. Più è difinita e più è efficace, vincente e solida nel tempo.

Come spiega Brian Tracy nel suo libro Negoziare, la migliore negoziazione, quella che consente di acquisire e mantenere un cliente, è quella di lungo termine che crea una relazione solida di fiducia che dura nel tempo.

Le regole (della riunione) che dimostrano disorganizzazione

In questa azienda evidentemente le riunioni sono decisamente movimentate e quindi si è avvertita l’esigenza di definire un “patto d’aula”: in pratica è una sorta di ring della boxe.

Questo sorta di “decalogo” in realtà è sintomatico di una gestione caotica in azienda, e comprende alcuni elementi molto soggettivi.

Parlare uno alla volta: evidentemente qualcuno ha scambiato la riunione in azienda per una assemblea di condominio. Questa regola dimostra, inoltre, che in azienda non vi è rispetto formale dell’interlocutore, poiché questa regola dovrebbe essere scontata.

Rispettare le opinioni: in una riunione le opinioni non dovrebbero neanche esistere poiché gli strumenti manageriali generano dati e la condivisione delle scelte dovrebbero mostrare scenari alternativi. Quanto al rispetto si torna di nuovo alla “tuttologia” individuale.

Confronto: il confronto è già negli strumenti, sui dati, sugli indicatori, la riunione è una condivisione o misurazione di scelte e strategie, una eventuale proposta di nuovi strumenti.

15 minuti di ritardo: non è il caso di entrare in merito a questo aspetto, dovrebbe essere scontata la puntualità.

Collaborazione: lo strumento organizzativo e gestionale è progettato per collaborare e cooperare, è la via per assicurare il lavoro comune. E’ esso stesso la collaborazione. Se non c’è uno strumento attraverso il quale “parlarsi”, ogni riunione è inutile.

Risposte costruttive: se si tratta di un comitato direttivo, non dovrebbe neanche servire indicare questo requisito comportamentale, se è una riunione operativa, il rischio è che tutti si sentano autorizzati a dare una opinione su tutto, obiettivo della riunione dovrebbe essere di chiarire le criticità emerse, non di mettere in discussione lo strumento che il management ha costruito per gestire i processi.

Comunicazione chiara: non si comprende bene qual è il requisito di cui si parla, quale il comportamento organizzativo da tenere alla riunione, forse bisogna arrivare semplicemente preparati avendo studiato i dati della riunione, forse non è chiaro che la comunicazione avviene sempre tramite strumenti e flussi pianificati

Ascolto attivo: in azienda l’ascolto non deve essere confinato agli incontri, ma a tutti i momenti di condivisione degli obiettivi, e magari alla formazione.

Risposte Costruttive: chiedere educatamente “secondo me”. In azienda il “secondo me” non dovrebbe esistere se parliamo di riunioni. Forse in questa azienda dovrebbe essere introdotto il “secondo i dati” o “Secondo lo strumento”.

In questa azienda sono stato invitato in occasione di un evento di presentazione della nuova linea di produzione ai clienti: se l’azienda crescerà forse si dovrà e potrà dotare di manager diversi dalla proprietà che si occupino di questo problema.

La prima cosa che bisognerebbe ricordare è che è compito dell’imprenditore definire strumenti, regole, procedure, gestione dei processi, ruoli e obiettivi, al fine di dare ai collaboratori gli strumenti per lavorare e gestire le riunioni sulla base di un modello di gestione e interazione. Infatti, anche al miglior manager deve essere assegnata in delega l’azienda attraverso uno strumento.

A quando lo Spid per le aziende?

Dopo anni in cui si è parlato di sportello unico per le imprese, le decine di adempimenti che ritardano le pratiche autorizzative bloccano da sempre il motore produttivo del Paese.

La Pubblica Amministrazione si sta attrezzando per la digitalizzazione e i cittadini sono sempre più in grado di accedere ai vari servizi attraverso l’identità digitale dello SPID.

A quando, però una identità digitale per le imprese, che riduca i tempi di gestione della burocrazia che asfissia le società?

Nonostante gli anni passino, lo sportello unico, non è mai stato, di fatto realizzato.

Il numero di adempimenti cresce, e con esso anche quello dei referenti della PA che richiedono continuamente dati già in possesso della Pubblica Amministrazione stessa o certificazioni o prove dell’identità dell’impresa.

Vi sono poi situazioni che ritardano molto le imprese a causa dei ritardi della digitalizzazione: catasto, registro imprese, codici ATECO mai verificati e aggiornati e incongruenti, digitalizzazione della borsa dei profili richiesti dalle aziende da incrociare con chi è alla ricerca di lavoro per le politiche attive, sono solo degli esempi.

Lo stesso registro dei siti web ufficiali aziendali che fine ha fatto e come mai non è nella visura camerale? Sarebbero un formidabile strumento di segmentazione del mercato con i dati profilati che già contengono se fossero davvero gestiti digitalmente.

Che senso ha fare registri pubblici obbligatori se poi non sono accessibili, verificati, in linea, con dati utilizzabili?

Creando una digitalizzazione si saltano lunghi passaggi anche per gli appalti la cui procedura spesso richiede 5 anni solo per le fasi preliminari documentali e di verifica, che portano il tempo medio di inizio lavori a 8-10 anni.

Se vogliamo vincere la sfida dobbiamo avere questi strumenti: sono inutili anche 1000 miliardi di fondi europei se poi non siamo in grado di spenderli in 2 anni.

Il digitale rende digitale anche il prodotto fisico tradizionale

E in futuro la stessa edizione sul digitale sarà diversa lettore per lettore

Oggi curiosamente su Il Corriere della Sera appare una notizia relativa a un furto di un orologio avvenuto al Quirinale e del ritrovamento dello stesso ad opera del nucleo speciale dei Carabinieri dedicato ai furti di opere d’arte.

Peraltro la curiosità è che nessuno si era accorto del furto: un negoziante, avendo ricevuto la proposta, ha contattato i militi stessi, i quali, analizzando l’oggetto sui cataloghi hanno scoperto essere parte della collezione nel Palazzo della Presidenza della Repubblica, e quindi il controllo successivo ha confermato la sottrazione.

Per noi è interessante vedere anche sotto la foto e la notizia: un inserzionista, casa d’aste di orologi, ha posizionato la sua pubblicità, ragionando sul fatto che tra i lettori interessati al fatto ci fossero ovviamente collezionisti di orologi d’epoca.

Come ha fatto, però, a sapere prima che la notizia sarebbe apparsa? Ovviamente ciò significa che la concessionaria di pubblicità ha proposto il posizionamento e, anzi, probabilmente la notizia è stata scelta attraverso i dati dei potenziali “click” proponendo l’analisi al potenziale inserzionista, evidentemente già coinvolto e già cliente storico.

In questo modo invece di essere “inbound” il lavoro dell’editore multimediale (carta, on-line, social) diventa outbound proponendo investimenti alla comunicazione dei potenziali clienti e non si limita ad attendere che bussino alla porta.

Possiamo perciò dire che la carta, l’analogico tradizionale, l’edizione fisica del giornale è diventata anch’essa un po’ digitale.

Naturalmente nell’edizione on-line letta dagli abbonati digitali, quindi, non solo gli inserzionisti sono diversi – a seconda che legga io sul tablet o telefono il giornale nell’edizione digitale o un altro lettore cui appariranno altri messaggi pubblicitari – ma anche gli stessi articoli dell’informazione sul digitale.

Quindi il giornale, lo stesso giornale, lo stesso giorno sarà sempre meno uguale a se stesso: le notizie saranno spesso personalizzate al lettore.

Non dovrebbe essere così anche per i nostri prodotti e servizi per i clienti?

La nicchia del tiro a segno

Nel periodo della pandemia molti alberghi si sono trovati di fronte al dilemma di resistere e tenere aperta la struttura – cogliendo l’opportunità di attrarre clienti che si servono di altre strutture concorrenti – oppure chiudere attendendo tempi nuovi, evitando di bruciare risorse ulteriori e magari utilizzando gli ammortizzatori sociali.

In particolare mi è capitato di vedere in una struttura ricettiva alcune decine di camere occupate da sportivi, famigliari e altro seguito tecnico di uno sport definito minore: il tiro a segno. In quell’hotel ciò ha rappresentato per diversi giorni oltre la metà della saturazione delle camere, e sicuramente in futuro diversi di questi ospiti torneranno per fare turismo in zona visto che ora hanno conosciuto la struttura.

Ma chi avrebbe basato il “piano di azione commerciale” sul mondo del tiro a segno? Tutti avrebbero pensato agli sport più diffusi, ai gruppi di interesse (come sempre noti, nazionali, internazionali) e svago sportivo che interessano una massa rilevante.

Invece diversamente da quanto viene erroneamente ritenuto, spesso non esiste UN piano commerciale fatto di UN gruppo omogeneo e rilevante di consumatori o clienti, bensì TANTI piccoli piani commerciali rivolti a altrettanto numerosi target che sommati diventano una massa critica, che solo in un secondo momento può azionare il passaparola virale.

E più è ristretto il gruppo di clienti, più lo definisco attraverso un numero sempre maggiore di criteri e maggiore è la probabilità definirne un profilo “nitido” un identikit in cui il cliente si identifica.

Va da sé che bisogna lavorare molto di più per intercettare e gestire la complessità e unicità dei bisogni dei gruppi singoli di clienti, molto diversi tra loro. E molto più numerosi! E’ difficile? Rischioso? E’ il compito di una vera impresa e di veri manager definire e mantenere una vera strategia: definire e scegliere cioè la propria parte di mercato.

E chi vuole un confronto professionale con un consulente sa dove trovarmi!

La fine dei Navigator?

I navigator sono da qualche mese nell’occhio del ciclone.

Il loro contratto di assunzione scade a breve e queste figure non hanno svolto il loro ruolo di trovare lavoro ai percepienti il reddito di cittadinanza: si parla di non rinnovare 2700 contratti.

Abbandonati persino dai grillini, in loro difesa, tra le motivazioni che vengono addotte dalla CGIL (in presidio a Roma nei giorni scorsi)  c’è quella – che definire stupefacente è poco e pubblicata da tutti i giornali https://www.repubblica.it/economia/2021/02/09/news/la_protesta_dei_navigator_che_rischiano_di_restare_senza_lavoro_serve_una_proroga_a_fine_2021_-286725159/?ref=RHTP-BH-I286519397-P1-S5-T1 – che “Le banche dati a disposizione dei navigator non si parlano, gli elenchi delle imprese erano vecchi e non aggiornati“.

Gli elenchi imprese? Non esistono “elenchi imprese“: tutti noi studiosi, ricercatori, professionisti e consulenti aziendalisti negli uffici marketing delle imprese usiamo il Registro delle Imprese che non è un elenco usa e getta, ma un database in linea costantemente aggiornato tenuto dalle Camere di Commercio, proprietà pubblica, dove le aziende si registrano e depositano gli atti e i bilanci.

Come è possibile che lo Stato venda a noi aziendalisti e imprenditori l’accesso a dati perfettamente in linea, dai quali si estraggono visure e certificati a norma di legge, elenchi aziende con parametri di ricerca i più sofisticati per fare la mappatura del mercato BtoB, e non li usi per i suoi navigator?

Sono sicuro poi che le società del settore che dalla riforma Treu, quelle che da 20 anni intermediano privatamente il 98% del mercato del lavoro (il 2% è intermediato tramite il collocamento) hanno accesso in modo permanente ai dati sulle società italiane, monitorandone i dipendenti,  gli sviluppi, la domanda, la crescita, studiando i profili ricercati sulle pagine “lavora con noi” di queste società di cui conoscono gli HR e i selezionatori. E avranno sicuramente sviluppato modelli evoluti di Business Intelligence per sviluppare le capacità di valutare i bisogni, attuali e futuri, in termini di competenze, capacità, ruoli e mansioni nelle aziende.

Vi sono figure, i data analyst, i risk manager, i cyber security manager, analisti di mercato, ma anche figure tecniche specializzate, nella digitalizzazione, automazione, meccanici, elettricisti, gestori di processi di logistica, project leader che vengono proposte alle aziende, prima ancora che esse avvertano il reale bisogno di digitalizzazione o evoluzione delle competenze organizzative, magari erogando anche servizi di reengineering dei processi organizzativi aziendali oltre che la selezione delle figure ricercate cosa che i puri “intermediatori” come i navigator non sono in grado di offrire alle aziende.

Persino all’interno delle stesse Risorse Umane (HR) compaiono figure di estrazione umanistica il filosofo aziendale, che si occupano di clima aziendale, apprendimento, motivazione, crescita del capitale umano, che non rispondono a classica impostazione domanda/offerta ma che rappresentano e facilitano il cambiamento organizzativo.

Forse sarebbe il caso di far fare a chi conosce il mercato la riqualificazione professionale e l’intermediazione con incentivi per politiche attive del lavoro: si tratta solo di far gestire sempre con gli stessi strumenti un “market place” della domanda e dell’offerta di lavoro digitalizzando il tutto e di usare a questo scopo anche i molti fondi della formazione finanziata inutilizzati.

Lo Stato così risparmia sussidi per costruire doppioni inutili (e sconnessi) dei centri per l’impiego, il vecchio collocamento, anzi: percepisce maggiori versamenti contributivi e fiscali, e chi conosce il mercato è incentivato a fare di più per la piena occupazione: è così facile che lo capirebbe anche un politico italiano.  

Il caso Cortilia: e-commerce significa conoscenza del consumatore

Come anticipato da vari organi di stampa, Cortilia ha raggiunto nel 2020 un fatturato di 33 milioni, rispetto ai 12 del 2019 e ai 9 circa del 2018. Una progressione significativa di un modello di business che vede ora anche l’ingresso di nuovi soci, su tutti Renzo Rosso.

https://www.ilsole24ore.com/art/cortilia-chiude-nuovo-round-34-milioni-renzo-rosso-entra-capitale-e-cda-ADxjvoCB

Il nuovo socio, Renzo Rosso, noto per essere il patron di Diesel, ha dichiarato al Corriere Economia di oggi, 18 gennaio 2021: “mi hanno aperto un orizzonte, hanno una conoscenza profonda dei consumatori.” Evidentemente qualcosa che l’imprenditore veneto non è riuscito a trovare in Natura Si https://bebeez.it/2020/08/27/renzo-rosso-esce-dal-capitale-dei-negozi-biologici-naturasi-della-piattaforma-innovazione-h-farm/.

Questi risultati di crescita del 175% sono stati realizzati poi, coprendo solo una parte del territorio nazianale, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte, con potenzialità, quindi di ulteriore crescita e sviluppo nel 2021.

La dichiarazione di Rosso è molto eloquente: “il modello di Cortilia mi ha portato a riflettere su tutte le mie aziende.” E’ sempre importante studiare i casi di successo soprattutto quando l’innovazione della catena del valore evidenzia spunti interessanti e soprendenti.

Cosa ci insegna il caso Cortilia, in che cosa Marco Porcaro, che ha inventato Cortilia, ha colto più e meglio degli altri il cambiamento nel mercato? Il legame strategico con i fornitori, i produttori agricoli, certo. Il servizio ai consumatori, preciso, puntuale, flessibile, eco sostenibile e coerente in tutti gli aspetti nell’immagine al consumatore. e poi i collaboratori il personale, selezionato, formato, coinvolto e incentivato e valori condivisi https://jobs.cortilia.it/. E ancora: essere bio, essere tecnologici, essere ecosostenibili, essere chilometro zero, essere social, essere ecommerce,essere digitali.

Tutte cose che verrebbe da dire – se non fosse che invece molte aziende, inclusa Naturasi, se le sono perse per strada – scontate, importanti e critiche, ma tutte insufficienti se non si ha la cosa più importante: i dati, le informazioni, una profilazione dei consumatori cui Renzo Rosso fa riferimento.

In ultimo, la trasformazione prevista di Cortilia in società Benefit: perché tutti, ma proprio tutti gli aspetti del business siano coerenti e vincenti dal punto di vista del cliente.

Il prezzo lo fa il cliente: ma qual è il margine?

“Per quanto la strategia sia bella, ogni tanto bisogna controllare i risultati.” diceva Winston Churchill.

In effetti in azienda girano frasi mito sui prezzi che sarebbero fatti dal cliente, dal mercato. Ma è proprio così? I grandi player del mercato fanno il prezzo, lo impongono e spesso lo schiacciano appositamente verso il basso per fare volumi e mettere in crisi i concorrenti, grandi, medi e piccoli. E sono loro, sempre i leader di mercato, a definire il prodotto semplificandolo, banalizzandolo.e rendendolo indifferente sul mercato.

I piccoli e medi attori del mercato, che hanno piccole quote del mercato, sono loro a subire la pressione dei prezzi, e a dover competere con margini bassissimi o nulli, quindi il prezzo non lo fa il cliente, cioè il mercato, lo fa il leader del mercato con la sua strategia aggressiva di posizionamento del prodotto/serrvizio, e l’ultima cosa da fare e scendere in campo e giocare con le stesse sue regole allo stesso gioco, ma con armi spuntate.

Chi deve competere sul mercato deve dunque differenziare l’offerta, innovare prodotto, servizio e processi, cambiare il “sistema prodotto”, la catena stessa del valore del prodotto e del servizio stravolgendo le regole, agendo sulle caratteristiche e i requisiti estetici, tecnici, prestazionali e più profondi del prodotto e del servizio al cliente, quali l’identificazione, il marchio, l’immagine, l’unicità e autenticità, l’artigianalità, il rapporto umano, il canale esclusivo e la comunicazione da e verso il cliente.

Studiare una strategia di posizionamento o riposizionamento comporta dunque conoscere dati e informazioni, studiare il mercato, i concorrenti, analizzare le grandezze psicografiche e anagrafiche, la capacità di spesa, lo stesso posizionamento dei clienti nel loro mercato (per il BtoB) o l’identità stessa dei consumatori (nel BtoC).

Ma soprattutto conoscere il costo del proprio prodotto, unico e irripetibile, e il prezzo corretto per il proprio cliente, che si identifica nel prodotto e nel marchio ed è proprio quanto è disposto a pagare per tutto questo. Conoscere il margine, significa quindi conoscere i risultati della strategia perché il margine è la misura del valore per il cliente ed è il margine che ci permette di investire per innovare, crescere, differenziare e competere.

Pronti alla sfida?

Il mercato elettorale (Biden vs Trump) come modello di segmentazione

Come avevo “ipotizzato” nel mio pezzo del 29 luglio 2020, la piattaforma di Biden prevedeva di avere come target del suo mercato elettorale gli stessi elettori di Barack Obama e lo si vedeva bene dalla comunicazione, se volete rileggervi il mio pezzo.

https://gianluigimelesi.com/2020/07/29/scrivo-build-back-better-e-leggi-barack-is-back/

In effetti il confronto tra i risultati le elezioni del 2012 e quelle del 2020 fa apparire quest’ultimo come in pratica la fotocopia perfetta, fatto salvo per la Florida e la Georgia, dove comunque i margini di differenza sono qualche migliaio di voti. Biden ha portato a casa anche qualche Stato in più, Arizona e Colorado e uno in meno Ohio.

Il mercato elettorale USA è proprio come il mercato dei nostri prodotti, dei nostri servizi e della nostra offerta ai potenziali clienti: non è uno solo indistinto, ma sono molti mercati a seconda di come si analizzano e proprio lo stesso modo con cui li suddividiamo, li sezioniamo e li disaggreghiamo evidenziando le differenze dei nostri clienti, i quali spesso sono concorrenti tra loro e quindi per strategia devono differenziarsi e non possono essere uniformi e omologati, si rivela giusto o sbagliato misurando i risultati a consuntivo.

In ognuno degli Stati elettori, gli strateghi elettorali della coalizione costruita da Biden hanno ipotizzato gruppi omogenei di elettori (clienti), i loro bisogni espressi e inespressi (economia, pandemia, sanità), l’offerta concorrente (Trump) disponibile, e tanti, tantissimi dati anagrafici e psicografici.

Al netto del traino che il partito (D) o (R) garantisce al candidato, (che nel caso delle aziende e dei mercato di prodotti e servizi sono i clienti affezionati, storici, fedeli, che si identificano con il marchio o il prodotto o l’azienda proprio come tifosi) in virtù del quale il candidato democratico ha partita facile in California o a NY, esistono Stati e bacini elettorali (Midwest, Stati industriali), ma anche altri, la Georgia, per esempio, ma anche la Pennsylvania, in cui la partita vera si è concentrata.

Trump ha vinto la partita negli stati ispanici (Texas e Florida su tutti, molto popolosi,m quasi un terzo dei grandi elettori di Trump) il che sembra una contraddizione vista la costruzione del muro anti immigrati. Ma Biden l’ha vinta negli Stati industriali più contesi, in maniera molto netta, ed emerge dalle analisi del voto che è stato l’elettorato bianco tradizionalista ad averlo premiato.

Sono diversi i motivi per i quali Biden ha convinto questi elettori, ma forse l’errore di Trump è stato di attaccare quando fino a 10 mesi dalle elezioni era in netto vantaggio (ha aumentato di 4 milioni i voti che lo hanno già eletto nel 2016!) conducendo una campagna aggressiva e all’attacco come se lo sfidante fosse lui! E se avessimo avuto dubbi, Biden ce li ha tolti tutti: il vecchio senatore, vecchio volpone della politica, avendo compreso l’errore, ha subito precisato che non si sarebbe ricandidato, quasi fosse lui il Presidente uscente e quasi fosse lui il candidato tipo dei Repubblicani liberal e moderati. E gli elettori l’hanno premiato.

Vi ricorda qualcosa questa strategia di mercato?