Le aziende medio grandi, gli HR e Linkedin: uno studio.

Da un’analisi che ho condotto su un campione di circa 2400 società di capitali con oltre 50 dipendenti nell’area di Milano e provincia, risulta che 79% circa del campione ha un profilo societario su Linkedin. Se si sale nella fascia maggiore di 100 dipendenti, si arriva al 83%.

Ne si deduce, pur essendo spesso la provincia milanese “pioniere” dell’evoluzione,che l’utilizzo di Linkedin inizia ad essere piuttosto diffuso come social professionale aziendale il cui scopo, è meglio ricordarlo, è innanzitutto presidiare e creare il market place delle risorse umane, oltre a quello per le aziende BtoB di sviluppare le relazioni con referenti aziendali di clienti attuali e potenziali.

Ciò che colpisce è la presenza di HR sul market place Linkedin che per il campione è pari al 40% circa per le aziende oltre i 50 dipendenti che sale modestamente, al 42% nel caso di società con almeno 100 dipendenti.

In questa analisi sono stati inclusi HR dell’area selezione, formazione e gestione (payroll) delle risorse umane e ha incluso anche HR che erroneamente non associano il proprio profilo Linkedin a quello della Società per cui lavorano, mostrando così di non utilizzare di fatto Linkedin per scopi professionali evoluti, né per l’impresa, né per la propria strategia di carriera.

Senza voler approfondire la complessa tematica dell’utilizzo di Linkedin in modo evoluto e professionale grazie anche a profili a pagamento e dei molti strumenti di business intelligence a disposizione, Linkedin non sostituisce affatto l’uso dei tradizionali strumenti di profilazione, mappatura delle competenze e selezione preventiva del candidato, né può garantire, in sé, che le informazioni contenute nel CV su Linkedin sia veritiere e affidabili, benché la presenza di raccomandazioni dei datori di lavoro aiuta spesso a comprendere il carattere del candidato.

Come sempre il confronto dal vivo con il candidato, da parte di un team di professionisti interni ed esterni all’azienda , di estrazione psicologica, umanistica, tecnica e organizzativa è il percorso per trovare le migliori soluzioni per il fabbisogno di competenze aziendali che la posizione va a soddisfare, fase su cui devono essere concentrate le risorse aziendali e il tempo da loro dedicato.

Ciò che manca, quindi, nelle aziende dall’analisi empirica è un presidio costante vero e proprio di studio continuo di Linkedin da parte delle risorse umane delle strategie di carriera dei profili che consenta un flusso di candidature inbound spontaneo: il che è l’obiettivo di ogni social e marketplace.

Per far ciò la comunicazione mirata dell’identità aziendale, dei valori di inclusione (o anche di esclusione, se del caso!), di sostenibilità e di missione aziendale, sono fondamentali allo scopo e naturalmente la presenza di profili in carne e ossa che interagiscano con i profili interessanti nell’ottica dello scouting preventivo e permanente.

Perché quando emerge la necessità di trovare un profilo idoneo per una posizione che si apre o manca spesso è già troppo tardi!

Aziende familiari e Manager: sì o no? Qualche spunto critico.

La ricerca recente del Centro studi delle Camere di commercio Tagliacarne, https://www.tagliacarne.it/ mostra come in Italia solo 9 imprese familiari su 100 hanno deciso di affidarsi a un manager esterno.

Sono molti i casi di successo di manager esterni alla compagine direttiva aziendale familiare, ma altrettanto noti sono quelli di insuccesso, come dimostra il caso Autostrade, laddove il management, in totale delega e indisturbato, è arrivato addirittura a distruggere letteralmente il valore dell’azienda per i soci.

Il tema è molto vasto, quindi per sintesi estrema provo a indicare alcuni pro e contra. Iniziamo dai pro:

  1. Essere la coscienza critica dell’azienda esterna alla famiglia, riportarla ai freddi numeri e ai dati, stimolarla a cambiare costantemente rilanciando la trasformazione e la strategia
  2. Completare così le competenze della direzione di tipo familiare grazie all’estrazione accademica di formatore studioso aziendalista e l’esperienza multi-settore necessaria a mantenere la tensione al cambiamento e a un continuo e fertile confronto di idee e di progetti a breve, medio e lungo termine.
  3. Fare da garante per eventuali rami esterni della famiglia che non sono operativamente in azienda (Trustee)
  4. Aiutare a definire i piani di successione aziendale e farsene garante
  5. Costituire un raccordo tra generazione junior e senior nell’esecuzione del piano di successione

Il management aziendale esterno alla famiglia, contra relativi agli stessi punti:

  1. il manager “si siede”; una volta preso posto nell’azienda rischia di essere meno aggiornato e motivato al cambiamento: e sostituirlo periodicamente rischia di essere una pezza peggiore del buco, poiché deve ricominciare ogni volta a conoscere bene il business e il contesto familiare
  2. La sola formazione accademica o di studioso aziendalista non basta: se non ha lunga esperienza in aziende familiari e nei rapporti psicologici tra soci della stessa famiglia non riesce a gestire i rapporti umani anche inter generazionali
  3. Se i rami della famiglia esterni all’azienda si riservano di scegliere il manager di garanzia si rischia di avere l’effetto “cane da guardia” e non un vero manager, se sono quelli interni a fare la scelta, gli esterni giudicheranno solo con il portafoglio e si sentiranno di criticare sempre.
  4. Nella definizione e gestione del piano di successione il rischio è che il manager esterno viva un conflitto di interessi tra il piano di successione e la propria strategia di carriera.
  5. Se è nominato dalla generazione senior, la generazione junior si può trova inevitabilmente in contrasto con “il manager scelto da papà”.

Come gestire queste criticità? Alcune riflessioni.

  • Inserire e gestire i manager sulla base di strumenti di pianificazione e delega progettati con professionisti specializzati, quali consulenti aziendalisti indipendenti, avvocati e consulenti tributaristi societari di diritto di impresa condivisi e che ne misurino i risultati.
  • Scegliere i manager tra chi ha esperienza professionale e formazione multidisciplinare e multiculturale, anche umanistica, relazionale e psicologica all’interno delle aziende familiari, possibilmente senza particolari strategie di carriera e privi di interessi in conflitto anche rispetto alle diverse generazioni.
  • Costruire con i professionisti specializzati indipendenti strumenti di valutazione della gestione aziendale scegliendo manager che siano soprattutto formatori cui affidare gli strumenti (piani) e che fanno crescere la famiglia nelle proprie capacità di conoscere il business e i fattori di rischio.
  • Il manager esterno deve far crescere l’azienda e i suoi soci, ma l’apporto del consulente aziendalista indipendente è fondamentale: il manager non può avere in delega uno strumento su qualcosa che egli conosce meglio di chi lo delega!

Quando la risposta “è tutta dentro nel gestionale” nessuno si fa la domanda.

La complessità è pane quotidiano in quest’era dell’incertezza, e per gestire la complessità, ci dice la matrice di Stacey, occorrono strumenti adeguati e capacità specifiche. Di più: la complessità dell’arena competitiva è un’occasione per vincere la sfida competitiva.

Serve quindi, di conseguenza, formazione sartoriale, per ciascun collaboratore, non teorica, non generalista, ma specialistica e personalizzata anche sugli strumenti e sui programmi gestionali che utilizza tutti i giorni o, meglio ancora, sulla parte degli strumenti che più si dedica alle eccezioni particolarmente critiche e complesse.

Capita spesso nelle aziende, anche e soprattutto più dimensionate, di sentire che la risposta a un problema, un dato, un possibile drill-dow,, cioè un approfondimento a livelli di analisi di scostamenti per singolo fattore critico è “dentro”: “basta tirare fuori i dati!“.

Ma “dentro” dove? Nel gestionale operativo aziendale, nella business intelligence, ovviamente. Ma chi deve “tirare fuori” questa risposta?

Uno dei compiti più importanti e critici dei manager e dei consulenti di direzione è proprio quello di formare e di creare sistemi a semaforo, report periodici preparatori di riunioni, schede esemplificative che ripercorrono continuamente le logiche di gestione aziendale, le regole del gioco, che rafforzino la delega ai collaboratori quale parte fondamentale per creare valore, successo, compettività.

Il collaboratore deve avere impressione che si lavori sempre a progetto, e non a “scrivania” o a ripetute operazioni di input, e per formare la sua mente all’apprendimento occorre un ciclo chiuso di qualità, fatto di estrapolazione ragionata e misurazione dei risultati del suo ruolo.

Tutti i sistemi, gli strumenti aziendali, anche quelli più sofisticati di Business Intelligence richiedono implementazione, feed-back, aggiornamento, manutenzione e sviluppo costante e continuo. Non sono un “programma”, una procedura, un punto di arrivo, ma semmai un’occasione di confronto, sono uno strumento di comunicazione a patto di generare periodici documenti che mostrino lo stato di avanzamento

Il collaboratore di valore, insomma, è quello che strappa lo strumento dalle mani del manager e del consulente che lo hanno progettato e sviluppato e comprende che il suo compito non è quello di gestire la commessa, l’ordine, il cliente, ma semmai di mantenere, sviluppare e adeguare la capacità dell’azienda di farlo.

Il fighetto di città contro il briatorino di provincia: la nuova segmentazione

I risultati delle elezioni amministrative 2021 mostrano un fenomeno sociale recente già in atto in molti Paesi occidentali. Mi riferisco a grandi città e metropoli orientate verso sindaci partiti progressisti ed ecologisti, opposte a una provincia più fautrice di istanze tradizionaliste, conservatrici e legate al mondo produttivo inteso per manifatturiero, industriale.

Questo dato stravolge le regole comunemente accettate solo pochi anni fa: un nord produttivo di centrodestra (con eccezione di alcune province dell’Emilia) un centro a forte concentrazione di centrosinistra e un sud “swinging”, mobile, insomma. Ora, le due Italie sono ovunque geograficamente: le città e la provincia, indipendentemente dalla latitudine. Il Giano bifronte, del libro di Nando Dalla Chiesa in versione aggiornata.

Quando presso i clienti nei miei progetti di consulenza facciamo il profilo del consumatore, le personas, come vengono definite, quello “cittadino” è spesso descritto come “fighetto” quello della provincia invece “briatorino”.

Il primo, il Fighetto di città, ha come modello di consumo Greta, non lavora in fabbrica, forse non ne ha mai vista una davvero, gira con la borraccia per non consumare plastica, si muove in bicicletta o monopattino (solo un 20enne su 5 fa la patente), consuma etico, vegetariano e bio, è iper connesso (da qui la sua tenedenza a considerare il suo “5 million club” rappresentativo del mondo), e in una città come Milano che galleggia sull’acqua dove le cantine e i box nei quartieri sud e le metropolitane soffrono di infiltrazioni, si lava i denti a secco perché è convinto che in Africa dove manca quell’acqua servirà. In Sicilia, l’acqua manca, ma il fighetto è più interessato ad altri continenti che al suo vicino di casa.

Ad opporsi al fighetto di città, c’è il Briatorino di provincia, l’auto per lui è ragione di vita, al punto di aver disimparato a camminare per più di 50 metri, lavora in aziende produttive, dove secondo lui si fa concretamente qualcosa, è convinto che in città siano tutti fighetti e fan di Greta, individualista, lo spreco alimentare in persona, considera ogni impegno sociale, e persino la propria appartenenza, in qualche modo, a una società come un esercizio accademico e che l’ambiente sia una variabile indipendente.

Si potrebbe andare molto avanti e in profondità in questa nuova psicografica che definisce queste due “personas” diversissime e quasi opposte tra loro.

Chi vincerà? Non so. Ma la battaglia è aperta anche per mantenere il presidio del proprio mercato e della propria comunicazione, anche social, che per forza di cose deve tenere conto di questa dicotomia quasi contrapposta di stili di vita e motivazioni!

E sicuramente di noi altri, quelli che sono schiacciati dall’ennesima nuova edizione dell’Italia delle fazioni, che siamo vittime di entrambi e che potremmo essere infastiditi da una comunicazione che ammicca troppo ai luoghi comuni. Ne sia un esempio la tendenza a mutuare dalla comunicazione americana il termine “boomer” che in Italia non ha alcun significato né parallelo: il rischio è davvero di fare un buco nell’acqua.

La sostenibile leggerezza del credere

Ma quale green pass, quale Luca Morisi, quali elezioni amministrative, quale Recovery Plan: la notizia del giorno è che sull’Autostrada del Sole fra Magliano Sabina e Orte la Polstrada ha fermato un 15 enne romano che era diretto, a piedi, sulla A1 a Milano.

Pensate che si sia posto la domanda di quanti chilometri ci siano (quasi 600) del tempo (inteso come cronologico) che richiede, e di quello (inteso come meteorologico) da cui dipende la sua tenuta fisica, di dove dormire, di dove mangiare, lavarsi, riposare? No.

Certo noi appassionati di camminata lunga, sappiamo che 25-30 km e 5-6 massimo 8 ore sono già molte per una giornata, noi che proviamo come il sottoscritto a fare la Francigena (altri il Cammino di Compostela) a tratti sappiamo molte di queste cose, i trucchi i problemi delle scarpe, delle vesciche, del caldo, del freddo, e di mille altre possibilità, probabilità e imprevisti (non proprio come quelli del Monopoli) cani randagi, cinghiali inclusi. I pensieri che ci accompagnano per ore.

La notizia è che il 15 enne assente ingiustificato da scuola e un po’ incosciente (per il rischio di essere investito sulla corsia di emergenza dove camminava) è partito e ha detto: ci arriverò e per la via breve! Non è arrivato, d’accordo, ma non si è per nulla scoraggiato dell’impresa. Forse se a volte anche noi nel nostro pessimismo e scetticismo provassimo a credere in qualcosa, anche se poi non arrivassimo a nostra volta davvero a Milano, ma ci fermassimo a tra Magliano Sabina e Orte, molte cose le vedremmo con più leggerezza.

Le immagini parlano da sole (ma le facciamo parlare noi!)

Siamo ad agosto e i nostri cellulari si riempiono di immagini, e così il web e tutti noi abbiamo visto foto divertenti, memorabili sul web.

Valentino Rossi ha annunciato la gravidanza della sua compagna con un simpatico siparietto in cui il “dottore” la visita, con tanto camice e targhetta (disegnata a mano, come farebbe un bambino, molto simpatica).

Si dice sempre che rispetto ai testi di comunicazione le immagini siano immediate, universali ed emozionali, ma l’immagine ha soprattutto il vantaggio di disporre di un elemento imbattibile: essa viene animata dal lettore come farebbe con un titolo evocativo e la copertina di un libro che ci immaginiamo essere intrigante.

Siamo noi dunque a scrivere la storia, la didascalia o il commento di quell’immagine.

Le immagini dunque per il brand di Valentino Rossi oggi parlano di un evento fondamentale nella sua vita, nelle nostre vite, un evento familiare, un evento emozionante, e l’elenco degli aggettivi potrebbe continuare, ma tutto questo avviene in modo miracoloso e cioè siamo noi che attribuiamo a tutto questo l’aggettivo che è la qualità in cui meglio ci identificihiamo e non l’autore del post stesso.

Qualcuno ricorda il verso “il bel tacer non fu mai scritto”? Ebbene ci sono casi in cui un commento in più, una sola sillaba di troppo tolgono e non aggiungono, e rendono meno universale e unico il messaggio. Messaggio che deve essere inclusivo, creativo e costruttivo e ci deve coinvolgere.

Nelle attività lavorative di tutti i giorni questa portata delle immagini dei social, insieme al processo di digitalizzazione, hanno un significato molto interessante: ogni singolo giorno è fondamentale ricordare qual è in sintesi come azienda la nostra identità, chi siamo, cosa ci facciamo in azienda e qual è il nostro obiettivo: sintesi ed efficacia sono sempre un’arma vincente.

Rating di Legalità: uno strumento competitivo, prima ancora che etico.

Da qualche tempo nelle visure camerali è disponibile una informazione in più nelle certificazioni di impresa: il rating di legalità. Va da una stellina a tre stelline come punteggio massimo.

Il regolamento per l’attribuzione del rating e l’elenco delle aziende sono disponibili al sito dell’attività Garante della Concorrenza: https://www.agcm.it/competenze/rating-di-legalita/.

E’ interessante notare come il rating dipenda anche da alcuni parametri che non sono strettamente legati alla gestione “negativa” ma anche a quella preventiva.

Alcuni esempi:

  • Adesione a protocolli di legalità sottoscritti dal Ministero degli Interni
  • Utilizzo di sistemi completi di tracciabilità dei pagamenti anche per importi inferiori a quelli obbligatori
  • adozione di una funzione o struttura organizzativa, anche in outsourcing, che espleti il controllo di conformità delle attività aziendali alle disposizioni normative 231/2001
  • adozione di processi organizzativi volti a garantire forme di Corporate Social Responsibility, anche attraverso l’adesione a programmi promossi da organizzazioni nazionali o nternazionali e l’acquisizione di indici di sostenibilità
  • Di essere iscritta in uno degli elenchi white list di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infliltrazione mafiosa
  • di aver aderito a codici etici di autoregolamentazione adottati dalle associazioni di categoria o di aver previsto, nei contratti con i propri clienti meccanismi di conciliazione con associazioni di consumatori o di categoria
  • di aver adottato modelli organizzativi di prevenzione e di contrasto della corruzione.

In conclusione, questi e altri sono e dovrebbero essere parametri per “fare affari” – e per quanto mi riguarda anche solo bere un caffé! – prima ancora di entrare in contatto con chiunque metta piede nella vita aziendale. E in particolare aggiungerei:

  • Creazione di una banca dati per rilevare e tracciare episodi di mobbing e discriminazioni nei confronti di collaboratori per i quali l’azienda sia stata condannata, con creazione di un meccanismo di whistleblower a livello di Authority Nazionale con possibilità di indagini
  • Se l’azienda fin dall’assunzione del nuovo collaboratore, facendo sottoscrivere un regolamento che rimanda alla normativa europea sul lavoro che chiarisce in modo contrattualmente chiaro e preventivo l’azione disciplinare in caso di violazione, e comunque, periodicamente forma i collaboratori sulle regole di inclusione, anti mobbing e non discriminazione dei colleghi di lavoro.
  • Inclusione tra i parametri delle aziende “cattivi pagatori” segnalate dal sistema bancario che non rispettano i tempi di pagamento concordati con i fornitori, e previsti dalla normativa UE, pur avendo rating finanziari e disponiblità liquide.

Life-long learning: la società della conoscenza per le aziende allenate

La formazione in azienda spesso è un po’ come la ruota di scorta, si fa soprattutto quella obbligatoria per legge, e anche in questo caso è vissuta come un adempimento burocratico che interrompe le attività ponendo ostacoli. In occasione di grandi novità e adeguamenti dei programmi gestionali, magari si fanno sessioni di formazione, ma senza un disegno complessivo sulla crescita della capacità dell’organizzazione.

L’apprendimento adulto è in realtà un’ottima occasione per creare momenti di confronto e crescita della coesione di una organizzazione e per riportare il discorso all’intera organizzazione e gestione dei processi e alle scelte per l’eccellenza dell’azienda sul mercato, sui ruoli e le mansioni e gli obiettivi delle stesse.

Quando i collaboratori sono formati, aggiornati e competenti contribuiscono essi stessi alla crescita degli strumenti aziendali e sono motore del cambiamento continuo, anticipando i problemi invece di subirli, invece di essere esecutori di attività ripetitive di cui conoscono solo marginalmente le ragioni.

Sappiamo che tra gli obiettivi dell’Unione Europea con il Recovery Fund del Next Generation c’è proprio la costruzione della società della conoscenza.

I collaboratori dell’azienda sono soprattutto risorse umane con la loro professionalità, che deve essere mantenuta aggiornata sia per l’azienda sia per il collaboratore stesso che così ottiene una gratificazione dal punto di vista della sua capacità di stare sul mercato se decidesse di cambiare azienda.

Alcune linee guida importanti e consigli:

  1. Legate sempre la formazione e suoi risultati alle gratifiche economiche e all’avanzamento di carriera o la formazione verrà vissuta come una attività non importante e abbandonata dai discenti che frequentano il corso aziendale
  2. Affidate la formazione aziendale a chi vi presenta anche una mappatura delle competenze necessarie e quelle attuali, o, se avete una funzione tecnica o organizzativa che già definisce il fabbisogno formativo, affidate comunque anche a una terza parte la valutazione delle persone come momento di confronto. Niente è oggettivo!
  3. La formazione a distanza ha i suoi vantaggi come costi, tempi e organizzazione, aiuta a mantenere aggiornato il collaboratore, mantiene la tensione alla crescita ma non dimenticate che la formazione in presenza è spesso risolutiva degli aspetti motivazionali e psicologici e soprattutto della “customer experience” del discente, di chi frequenta il corso al di là della tecnologia usata (magari come fumo negli occhi).
  4. La formazione va pianificata, inserita in modo corretto nelle altre attività, misurata nella sua efficacia, ma il valore maggiore che avrete da una vera formazione manageriale sarà sempre un profilo del discente e del suo modo di apprendere e di vedere il mondo che vi servirà anche fuori dagli spazi puri di formazione per avere le persone giuste al posto giusto.
  5. Non trattate la formazione di adulti come quella in età scolastica, un adulto impara attraverso metodi, strumenti, sistemi razionali e modi di approccio, se in inglese (education, learning) e in tedesco sono due parole diverse (Ausbildung e Weiterbildung) una ragione ci sarà!
  6. Legate la formazione alle attività concrete di tutti i giorni, alle criticità, ai problemi: un formatore che viene a parlarvi dei massimi sistemi, di come bisogna vedere il mondo, di grandi valori, ha senso solo se il patrimonio aziendale ha già assorbito tutto quanto necessario alla propria autonoma crescita, altrimenti è vissuto come qualcosa di esterno e lontano dall’azienda.

Le PMI additate per il nanismo cronico, oggi sono il futuro?

Solo pochi anni fa il “nanismo” delle Piccole e Medie Imprese era l’argomento di conversazione tra imprenditori, consulenti, professionisti e investitori del mondo professionale e manageriale delle aziende. Partner dei primi gruppi mondiali di consulenza si sono dedicati spesso a scrivere libri contro questa incapacità di crescere (in ogni senso) del tessuto produttivo italiano.

Già da qualche anno, grandi società di consulenza, studiosi, investitori, advisor e fondi di investimenti hanno letteralmente abbassato l’asticella entrando di prepotenza nel mondo dell’impresa familiare, spesso in Italia padronale, e di dimensioni più limitate.

Che nelle PMI ci sia spesso un valore e una capacità di crearlo più elevato, forse dovuto alla necessità di competere con concorrenti formidabili più dimensionati, questo è nei numeri, nei fatti e nella realtà: se il leader di mercato fa pressioni di prezzi al cliente sfruttando economie di scala su volumi più elevati e risorse dimensionate ottimamente per l’organizzazione dei processi, il concorrente di media o piccola taglia è obbligato a differenziare, innovare, studiare il valore per il cliente e personalizzare prodotto e servizio.

Ma in questo momento storico c’è forse qualcosa di più e di meglio da comprendere. Le aziende familiari, spesso a tasso “padronale” elevato, con presenza limitata di manager esterni alla famiglia e con struttura più appiattita, con “invasione” a gamba tesa dei soci nei processi top down, e altri difetti tipici sempre additati, vivono un momento di favore del vento per il quale i difetti si trasformano spesso in pregi.

  1. Catena del comando corta, struttura piatta e poca delega: svantaggio che diventa vantaggio perché l’imprenditore conosce meglio e a fondo la sua azienda, i suoi processi, la sua struttura e i suoi uomini. E il cambiamento è così molto veloce.
  2. Azienda sottocapitalizzata e incapace di generare liquidità e marginalità apparente: svantaggio che diventa vantaggio se si considera che non sono mai stati davvero valutati gli asset tangibili e intangibili dell’azienda, mentre nella grande azienda si ricorre spesso a queste politiche di bilancio per fare risultato. C’è patrimonio nascosto, c’è marginalità nascosta (spesso sotto forma di SNC/SAS) per non farsi scovare.
  3. Assenza o presenza limitata di manager in azienda esclusi i soci: assenza totale di comportamenti “opportunistici” in cui l’obiettivo di carriera del manager e del suo “gruppo di amici” (chiamiamoli così) divergono in modo distonico da quelli aziendali. Se non c’è delega (difetto) e controllo formalizzato in strumenti (difetto) e misurazione (difetto) e incentivazione sui risultati (difetto) è anche vero che non ci sono distorsioni sulla strategia e comportamenti tattici, aree di comfort tipici delle istituzioni totali. Le PMI non sono istituzioni totali!
  4. Strategia gestita dalla famiglia (difetto se si tende a favorire la famiglia rispetto all’impresa di famiglia considerandola un giocattolo e un bene proprio) che però garantisce quella visione di lungo termine da garantire alle generazioni successive, tanto importante in momento come quello attuale di crisi da pandemia. Pensiamo solo all’obbligo di rivedere tutta l’azienda con il passaggio generazionale che impone riflessioni assenti nelle aziende più grandi spesso “sedute” sul proprio successo.

Questi sono solo alcuni degli esempi che rendono particolarmente attraenti per le operazioni di M&A le aziende di taglio ridotto con grande capacità di crescita potenziale, che sono sopravvissute “nonostante”, che hanno poi redditività media spesso più alta di quella dellle grandi e grandissime imprese, flessibilità e innovatività.

Gli investitori, insomma, ragionano di margini ottenuti nonostante i tanti difetti dell’azienda padronale, e immaginano, non a torto che con una organizzazione e manager capaci quei margini potrebbero essere persino maggiori.

Da colpevoli di ogni ritardo e di ogni bassa produttività le PMI oggi giocano un ruolo critico importante per il futuro dell’economia? Lo scopriremo solo vivendo.

Linkedin per aziende: sei consigli (per iniziare!)

Girando per aziende in tutta Italia, e qualche volta in Europa, mi ritrovo spesso a definire piani con le agenzie di comunicazione marketing delle aziende clienti.

Linkedin è parte dei social aziendali, importante soprattuto quando le aziende sono BtoB, ed è paradossale che in un Paese dove questo tipo di aziende sono la maggioranza schiacciante, non venga utilizzato a pieno e siano così pochi i profili veramente evoluti.

La responsabilità è spesso delle stesse agenzie che si sono formate nella letteratura BtoC americana e non sono preparate a comprendere il processo di relazione coi clienti, di definizione della rete professionale e di costruzione dei potenziali contatti per aziende che hanno come clienti altre aziende, quindi con processo di acquisto articolato, da gestire con i referenti aziendali che a loro volta hanno strategie di comunicazione e carriera.

Ci sono 13 milioni di profili Linkedin in Italia, ma oltre la metà sono letteralemente “vuoti”, privi di contatti, oppure non alimentati, non aggiornati o semplicemente di persone che rivestono ruoli non decisori in azienda. La maggior parte dei profili individuali non sono collegati al profilo aziendale Linkedin, non sono profili professionali e quindi non hanno le funzioni critiche e non vengono utilizzati a pieno, ci sono doppi profili delle stesse figure, e profili evidentemente creati dalla stessa Linkedin per verificare il traffico.

Molto spesso le aziende hanno profili di più esponenti di punta utilizzati in luogo del profilo Linkedin aziendale, all’interno dei quali però la descrizione dell’attività e le parole chiave sono diversi tra loro e diversi da ciò che il cliente trova nel sito, persino i loghi sono diversi con buona pace delle coerenze di marketing e dell’indicizzazione.

Ecco quindi sei consigli per iniziare a usare Linkedin la cui utilità può essere un fattore di successo solo dopo aver costruito la propria rete strategica:

  1. Linkedin è un social professionale, ma pur sempre un social individuale: esiste quindi un doppio obiettivo strategico in un profilo di un “buyer” di un cliente potenziale: quello individuale di carriera e quello relativo al proprio ruolo in azienda
  2. La parte del profilo linkedin relativa alle referenze, interessi personali, siti e persone seguite che è posizionata in fondo, e che tutti snobbano, è in realtà la più importante. Nel marketing BtoB il processo di acquisto prevede di soddisfare le motivazioni della persona e dell’azienda dove lavora. Dietro a un buyer, a un referente, a un segnalatore, c’è sempre una persona con le sue passioni di lavoro e no.
  3. Ogni potenziale buyer, segnalatore o referente ha una sua formazione, inclinazione alle relazioni o alla razionalità del ruolo: studiare bene il tipo di personalità è più importante di chiedere amicizia, poiché in diversi casi, dopo aver studiato il profilo, il percorso del contatto è tradizionale, telefonico, o altro, ma non linkedin.
  4. Non ha senso fare spamming in Linkedin, è un errore grave perché non c’è una seconda occasione e il copia e incolla viene subito percepito. Obiettivo è creare la rete, preparare una rete social per contenuti interessanti per gli interlocutori che dobbiamo ancora studiare proprio in base a ciò che c’è nei loro profili. Non ha senso forzare: occorre invece fotografare lo stato dell’arte del marketplace Linkedin.
  5. I contenuti devono avere a che fare con le strategie del cliente, non con ciò che noi vogliamo comunicare del nostro prodotto. Il marketing vincente è aiutare il cliente a vincere la sua partita, la sua strategia di carriera, fornendo ad esso attraverso il nostro prodotto e servizio, un fattore critico di successo per il suo mercato, non per il nostro.
  6. Ricordatevi che Linkedin c’è per fare comunicazione, ma ancor prima per fare carriera e cercare lavoro: un buyer è interessato a un contatto se questo gli fornisce anche conoscenze per entrare in contatto con datori di lavoro, con HR, con occasioni professionali concrete. Va da sé che un venditore comune non è interessante più di tanto per un Direttore Acquisti o un CEO o un imprenditore di una PMI.

Tutto questo è solo l’inizio: se disponete di un CRM completo connesso con il registro imprese Linkedin professionale aziendale sarà e dovrà essere integrato e produrre “campi evoluti” “mappe strategiche” (al di là dei dati psicografici e anagrafici) capaci di suggerire all’interno della rete strategica fatta di influenzatori del processo di acquisto, la segmentazione vincente. E’ la parte più divertente, creativa, stimolante in tutti i sensi del mio lavoro con gli uffici marketing delle aziende.

Ricordiamocelo sempre: la strategia è la parte del mercato che l’azienda vuole coprire, difendere e preservare. Più è difinita e più è efficace, vincente e solida nel tempo.

Come spiega Brian Tracy nel suo libro Negoziare, la migliore negoziazione, quella che consente di acquisire e mantenere un cliente, è quella di lungo termine che crea una relazione solida di fiducia che dura nel tempo.